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Ballottaggio Bersani ha capito Renzi no

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Penso che il ballottaggio sia il metodo migliore. È preferibile che – sia pure a seguito di un secondo turno – chi vince lo faccia con la maggioranza assoluta dei voti. E’ preferibile sempre; ma in particolare nelle primarie: perché chi prevale deve uscire il più forte possibile nella successiva, decisiva competizione.
Al di là di quel che penso io, lo hanno dimostrato proprio le primarie dei “progressisti” appena concluse. È fuor di dubbio che il vincitore, Bersani, sia molto più forte, ora, dopo il ballottaggio del 2 dicembre, che se si fosse votato solo domenica 25 novembre. Se ci si fosse fermati, lì avrebbe vinto ugualmente Bersani; ma la differenza è evidente: avrebbe avuto il 44 e non il 60 per cento e – soprattutto – il distacco dal suo principale contendente  sarebbe stato inferiore ai dieci punti, anziché superiore ai venti. Senza dire che il 15% di Vendola, assimilato nel ballottaggio, è diventato fattore di successo, mentre, lasciato da solo e in evidenza, avrebbe dato fastidio.
Bersani dice il vero quando rivendica a sé il merito di aver voluto il ballottaggio. E’ stato un merito da un punto di vista generale; ed è stata anche una convenienza personale.
Renzi, invece, non ha riflettuto a sufficienza sull’argomento. Ha accolto con favore l’ipotesi del ballottaggio e ai fini della linearità e della efficacia democratica del tutto ha fatto bene. Forse si è anche lasciato sedurre dalla forte evidenza di cui avrebbe goduto, in caso fosse riuscito a costringere al ballottaggio il segretario del PD. Ma non ha colto (o ha sottovalutato) che la sua forza di attrazione, verso il voto raccolto dagli altri candidati al primo turno, era di gran lunga inferiore a quella di Bersani; e quindi sarebbe uscito dal ballottaggio con un distacco maggiore di quanto registrato al primo turno. A meno che l’accesso al voto in caso di ballottaggio non fosse stato riaperto senza alcuna limitazione. Renzi, dunque,  avrebbe dovuto porre fin dall’inizio questa condizione come imprescindibile per il ballottaggio. Di fronte a un no, avrebbe dovuto dire: un turno e basta. Visto che sembra propenso a ricercare gli errori compiuti, pensi se non vada considerato anche questo – e non fra i minori.
Ai fini della serenità e della soddisfazione democratica di noi, semplici cittadini elettori, sarebbe comunque bene poter contare, in futuro, sia sul ballottaggio sia sulla liberalizzazione dell’accesso. E anche la democrazia ne avrebbe seri vantaggi.

CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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