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Con Donald Trump finisce il lungo sogno del ‘68

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Mettete dei fiori nei vostri cannoni, diceva un ritornello pop nell’italietta che si scopriva a colori e piena di allegra e combattiva speranza. In Francia e in Europa tutta, oceani giovanili si riversavano nelle piazze nel tentativo di cambiare , a suon di “Ce n’est qu’un début, continuons le combat!”, una società che a loro non piaceva affatto, quella costruita in Occidente nei vent’anni seguiti alla fine del conflitto mondiale più devastante di sempre.
Con l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America, tramonta definitivamente un intero mondo, quello nato sulle barricate del ‘68. Il sogno fin troppo ingenuo di una società globale, accogliente ed aperta ad ogni diversità si infrange, dopo sforzi durati quasi mezzo secolo, contro la dura realtà di un’economia stravolta da movimenti e migrazioni di massa che hanno mutato radicalmente gli scenari mondiali.
Le potenze tradizionali del vecchio mondo sono state chiamate col passare dei lustri a fronteggiare nuovi colossi della produzione industriale, realtà emergenti cresciute soprattutto in Asia a velocità supersonica, che hanno messo in crisi un’egemonia che sembrava immutabile.
Tutto ciò ha accelerato il processo di sgretolamento di alcune vecchie categorie politiche, sopravvissute ben oltre il tempo ad esse concesso dalla Storia. Fascismo e comunismo per esempio, tenuti artificialmente in vita da spregiudicati leader politici occidentali con l’unico intento di diluire nel tempo la conservazione di una supremazia basata sul timore dei ceti medi.
Anche liberalismo e socialdemocrazia, alla lunga, stanno accusando il malessere che si è impadronito del periodo storico attuale, probabilmente colti di sorpresa dagli eventi e da una certa inveterata abitudine alla gestione del potere, tradotta spesso e volentieri in livelli di corruzione insopportabili.
Nel frattempo gli estremismi politici si sono andati trasformando, fino a fondersi in un unico, mostruoso movimento dal tratto populista, fondato essenzialmente sull’intercettazione del crescente, trasversale disagio causato da un impoverimento sempre più generalizzato e dall’assedio pressante del terzo mondo, divenuto protagonista nella doppia veste di massa migratoria e concorrente economico. Un movimento basato sulla protesta, privo di coordinate ideali e focalizzato sull’esigenza di un rinnovamento totale che dovrebbe realizzarsi però per autocombustione, senza cioè aver previsto o programmato alcunché.
Di peace & love non osa più parlarne nessuno. E anche integrazione e welfare sono concetti guardati con sospetto un po’ ovunque, figurarsi in America dove il neoeletto presidente americano inalbera la bandiera del nazionalismo più spinto e promette di impegnarsi a fondo nello smontaggio pezzo per pezzo delle riforme faticosamente varate dal suo predecessore Barack Obama.
Il mondo sembra di nuovo più orientato a costruire muri che ad abbatterli. Quanto durerà la nuova tendenza? The answer, my friend, is blowin’ in the wind.

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