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Racconti

Dal balcone

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L a ragazzina appoggiata alla ringhiera penzolava. E pensava. Le gambe giù, mosse da un ritornello nella sua testa. Guardava passare le macchine, che guardavano lei. Pochi anni da ricordare e tanti da inventare. La gomma da masticare aveva esaurito il suo sapore, così intenso alle prime bolle, poteva farne pallina e gettarla sui camion, di sotto. La sua saliva almeno sarebbe andata lontano. Le piaceva da matta infilare le gambe magre tra le sbarre e stare seduta sul pavimento che le rinfrescava le mutande; il caldo torrido non l’infastidiva, amava i contrasti. Dentro ogni macchina una storia, dentro alcune anche due o tre. Avrebbe voluto saperle tutte. Avrebbe voluto viverle tutte. E poi scegliere con una conta quella che le stava meglio addosso. Contava le macchine che guardavano lei. Se dopo sette fosse passato un camion avrebbe vinto. Ma una moto andava bene lo stesso. Dondolava i piedi. Se li aveva sporchi le piaceva di più. Quelli che passavano sotto avrebbero parlato di lei in un modo o nell’altro. I ragazzini che urlavano e si inseguivano in strada la irritavano. Lei guardava le macchine che guardavano lei. Quante estati sarebbero dovute passare prima di mettere i piedi sui pedali? E andare da qualche parte. Tornare da un’altra. E avrebbe avuto persone da incontrare, impegni da sbrigare, occhiali da sole sul naso e un meraviglioso rossetto rosso da darsi sulla bocca nello specchietto retrovisore, come la bella signora delle cinque. Lei buttava la borsetta sul sedile di fianco e come entrava bene nella sua macchina. Tutti i giorni si cambiava d’abito e il suo profumo arrivava fino al secondo piano, ai piedi, alle ginocchia, al naso. Il rumore delle chiavi che la signora teneva in mano la stordivano e le dicevano di vita veloce, intensa, meravigliosa. E la musica, diversa da quella che ascoltavano i suoi amici sulla strada, le faceva pensare a grandi amori, grandi avventure, grandi emozioni. Grandi. Quante macchine avrebbe ancora dovuto contare? Lei odiava le macchine che guardavano lei che guardava le macchine.

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MONICA CAMILLA TORINO

Non posso scrivere la mia vita, è lei che scrive me. Abbozza, sbaglia, corregge. Mette punteggiatura a casaccio. Raramente mi lascia fare l'editing.

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