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Don Ferrante e il Professor Grossi

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Il Professor Paolo Grossi Presidente della Consulta

 

Si è scomodato anche il Presidente della Consulta per dire la sua sulla questione della partecipazione al voto nei referendum; una opinione come un’altra. La mia, per esempio è diversa: se la Costituzione fissa un limite per la validità di un referendum (partecipazione al voto di almeno il 50% più uno degli aventi diritto) mi sembra che ciascuno di noi possa influire sul raggiungimento di questa condizione decidendo se andare a votare o meno; prima ancora di scegliere (andandoci) fra SI e NO. Opinioni, appunto.

Si dà il caso, però, che possiamo disporre sul tema non solo di opinioni, ma anche di fatti che emergono da una esperienza pluridecennale. Spesso, dalle nostre parti – si sa – e in particolare sui cosiddetti organi di informazione, tanto piace lo scontro e l’arruffamento di opinioni quanto “scoccia” il riferimento ai fatti, considerati banali, noiosi, superflui.

La materia documentale ci è fornita dalle consultazioni referendarie “plurime”, nelle quali gli elettori sono stati chiamati ad esprimersi su più quesiti e, quindi, a votare su più di una scheda. Se si esaminano i dati ufficiali di queste consultazioni, si noterà che il numero dei voti validi (comprese, ovviamente, schede bianche e nulle) varia da quesito a quesito.

Il primo referendum abrogativo fu quello sul divorzio, nel 1974. Il quesito era uno solo e non si presta, dunque, alla nostra indagine. Negli anni ’70 ce ne fu un secondo, nel 1978, con due quesiti: uno sulla legge Reale e uno sul finanziamento pubblico ai partiti. Ci fu fra i due un piccolo scarto nel numero dei voti validi, a favore del primo, ma di entità irrilevante; poco meno di 30.000, lo 0,1%. Lo strumento referendario era ancora nuovo e si doveva ancora capire come padroneggiarlo.

Già nel primo referendum degli anni ’80 (17 e 18 maggio 1981) fra il referendum più votato e quello meno votato (in tutto i quesiti erano 5) c’è uno scarto di 640.316 voti. Vuol dire che un numero pari di persone andò a votare ma rifiutò almeno una delle schede a disposizione. Il divario risulta tanto più significativo se si tiene conto che quei due referendum riguardavano entrambi la abrogazione della legge sull’aborto: uno era promosso dal “Movimento per la vita” e l’altro dal Partito radicale. In quella occasione ci furono quasi 650.000 elettori che presero e votarono la scheda del primo referendum e rifiutarono quella del secondo. Un fatto sicuramente significativo.

Facciamo un salto all’11 giugno 1995, la consultazione con 12 (dodici!!!) quesiti. Quel giorno il divario fra il quesito con più votanti e quello con meno balza a 2.888.976; più di un elettore su dieci rifiutò almeno una delle dodici schede e molti ne rifiutarono più d’una.

Dopo di allora ben 23 quesiti referendari sono caduti per mancato raggiungimento del quorum. Evidentemente gli i樂威壯
taliani avevano imparato a usare i referendum; e anche a difendersene quando sembravano loro cervellotici, inutili o strumentali: rifiutando la scheda o disertando l’urna.

Questi sono i fatti, al di là delle opinioni – autorevolissime, per carità – e dei pareri – dottissimi, per carità – su commi e pandette. Se ci si piegasse sui poveri numeri delle statistiche, tutto diventerebbe più chiaro e anche meno controverso.

Sono anni che gli italiani non nei salotti più o meno televisivi ma nei seggi elettorali, quando hanno a che fare con referendum plurimi decidono quali schede prendere e quali rifiutare, su quali quesiti votare e su quali astenersi. E nessuno ha mai avuto a che ridire; evidentemente perché questo comportamento è del tutto in linea con le leggi e con la Costituzione.

L’esimio Professor Grossi, Presidente della corte che giudica le leggi, ha detto che al referendum si deve votare perché questo fa parte della carta d’identità del “buon cittadino”. Mi viene da chiedergli: i cittadini che votano una scheda e l’altra la rifiutano sono “buoni cittadini” perché partecipano o “cattivi cittadini” perché rifiutano di pronunciarsi su un quesito che a loro appare insensato?

Non lo faccio; non vorrei che finisse come Don Ferrante che, attribuendo l’origine della peste alle stelle e non al contagio e all’igiene, finì per morirne.

 

 

 

 

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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