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Racconti

I morti

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Da bambina adoravo i morti. A casa di mio padre erano laici e sabaudi e sarcastici fino al midollo, dunque anche i santi erano morti, e la prima ricorrenza spariva risucchiata nel cupo realismo della seconda. Ci vediamo dopo i morti, si diceva, e anche Aspettiamo i morti a tirare fuori i cappotti. Nel frattempo si moriva di freddo. Il primo giorno dei morti, che poi era quello di Ognissanti, si andava dai morti di mia nonna, in un cimitero del basso Piemonte che però era alto, in collina. Quei morti lì erano morti da così tanto tempo che nessuno li piangeva più, e oltretutto erano morti allegri, protagonisti di aneddoti ripetuti un anno dopo l’altro, che via via si abbellivano e perdevano qualunque parentela col lutto. Era una scampagnata tra le vigne e la prima nebbia.

A me piaceva tantissimo l’odore sfatto di fiori tagliati e marciume nella cappella, il freddo umido che colava dai muri, le fotine ovali dei signori le signore e i fanciulli vestiti di nero – ragazzini morti sulla soglia dell’adolescenza, ritratti con l’abito della cresima e la fascia bianca al braccio, dunque irrimediabilmente fanciulli. E il guizzo dei lumini nel freddo, il piccolo parapiglia della scala appoggiata al muro, dopo che in due o tre se la erano strappata di mano per conquistarsi ciascuno il privilegio dell’ascesa eroica ai loculi alti, una mano perigliosamente aggrappata al piolo e l’altra che reggeva un vasetto di peltro coi fiori. Poi nella grande casa di campagna si consumava l’irrinunciabile minestra di ceci, mio nonno mi faceva assaggiare il vino di straforo e si raccontavano le imprese di Vittorio e Giannino, padre e figlio, avi formidabili per stazza e vitalità, gran mangiatori e bevitori di rosso corposo fin dal mattino: una volta Giannino era finito nell’enorme tino di fermentazione del mosto, e Vittorio, con la forza di un unico braccio, l’aveva ripescato da quell’inferno ribollente prima che le esalazioni venefiche lo uccidessero. E poi altre gesta erculee tra stalla, campo e vigna, bigonce e carri da buoi. Incongrua in quel mondo maschio, agricolo, animale, l’esile figura di Francesca, moglie di Vittorio e madre di Giannino: bianca e sfocata nei ritratti, con la crocchia bassa sulla nuca – una Virginia Woolf appena più campagnola -, di lei si diceva che era morta il giorno che Mussolini aveva dichiarato guerra a Francia e Inghilterra. Formidabile, anche lei.

Il secondo giorno si andava dai morti di mio nonno, in un altro paese del basso Piemonte, che lì era basso davvero, e la faccenda era effettivamente più inquietante. C’erano molti più cipressi, che ricordo quasi neri, siepi di bosso dall’odore cupo punteggiate di bacche vermiglie come minuscoli gioielli di sangue – vermiglio, vermiglione: gustose parole scolastiche che mi facevano amare le grandi scatole di latta dei pastelli Caran d’Ache, anche se il disegno non mi è mai piaciuto – e una vaga letizia scandita dalla marcia esultante dei tacchi nei vialetti di ghiaia – quelli sottili affondavano un poco -, nella scia di naftalina lasciata dalle sagome incappottate, nel filo di fumo che usciva dalle bocche. I morti di mio nonno erano più seri ed eleganti di quelli di mia nonna, avevano folti baffi umbertini, scriminature nette, cammei al collo, sguardi di circostanza. Sguardi da morti, insomma. Una famiglia di città che in quel paese di pianura aveva solo la sua origine, e che un tempo aveva dato a quel luogo senz’arte né parte medici, farmacisti e anche una maestra e poi, tra le due guerre, aveva tentato l’avventura industriale, perdendosi tra le sorti incerte di una borghesia urbana che ne aveva quasi cancellato le impronte. Ai morti, dunque, la famiglia ritornava in sé: ritornava, in qualche modo, eccezionale. Nello sfacelo dei petali caduti, delle piante portate l’anno prima e rovesciate dal vento e dai temporali nei mesi precedenti, della terracotta in frantumi, dei grumi di terra sparsa e delle ragnatele, si cambiava l’acqua putrida nei vasi, si sistemavano alacremente nuovi fiori e nuova acqua, si spazzava. Precedute dal clic assertivo delle borsette – l’occasione meritava il coccodrillo – e avvolte da una fragranza momentanea di menta e fazzoletti puliti, un paio di sorelle di mio nonno, in pelliccia di persiano e in un angolo, recitavano dapprima sommessamente e poi in un crescendo entusiasta il rosario: Ave Maria gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui Iesus, Sancta Maria mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc, et in hora mortis nostrae. Amen. Le labbra si incollavano per le ripetizioni mentre io assimilavo il mistero del frutto e del ventre, l’inevitabilità del peccato e l’insindacabilità della morte, e sul lato opposto mia nonna, grande artefice delle nostre vite anche nell’aldilà, indicava a mio padre i loculi che attendevano i vivi, gli spostamenti necessari per mantenere vicini i più prossimi ed evitare la prossimità a chi in vita invece si era odiato, e perfino gli indesiderati, i morti che bisognava estromettere perché non avevano i titoli per rimanere nella cappella di famiglia, e chissà grazie a quali furberie ci erano entrati. Più tardi il fervore organizzativo di mia nonna avrebbe fornito a mia madre l’ennesima occasione per mettere la vecchia brigatrice in cattiva luce col figlio, che avrebbe spostato il discorso raccontando di quella volta che, costretto da sua madre ad assistere a una riesumazione a scopo trasferimento, aveva dovuto constatare che del prozio Antonio erano rimasti solo i baffi. Già fornita di un immaginario abbastanza gotico da figurarmi quelle vite nella bara come un incessante proliferare di larve, crescita incontrollata di capelli e arricciarsi arzigogolato di unghie, ero grata per quel racconto surreale e dolcissimo, il prozio Antonio svanito chissà dove e quel paio di baffi perfetti a segnare il suo passaggio in questo mondo.

L’ultima ripetizione dell’Ave Maria sancisce la fine della visita, le guance delle donne si sfiorano e le labbra arricciate baciano l’aria, le mani maschili si stringono, battono sulle maniche dei cappotti, si progettano incontri che non avverranno, si parla di bimbi che stanno per nascere, puerpere che non sono potute venire, lauree matrimoni e promozioni. La morte è sigillata nella forma, morte benevola e lontana di trisavoli che abitano sorridenti leggende familiari, sorvegliano dall’alto dei loculi quella visita festosa, approvano sobriamente di sotto la folta fermezza dei baffi, la curva dei capelli raccolti sulle tempie. Certo anche quei morti lì erano morti malamente, come quasi tutti, una sorella del nonno morta giovane di una malattia rara e terribile agli intestini che solo il tempo aveva reso elegante, un prozio ammazzato da un cancro brutto e doloroso quando il cancro non si chiamava nemmeno così, un altro ucciso a vent’anni dalla guerra del 15-18. Ma noi al ritorno ci si fermava a fare merenda in un paese famoso per la farinata, e fine della storia.

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