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Racconti

Il Palazzo, Le vacanze si diceva

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C’era l’acqua, c’erano i sassi, i prati, i boschi, i fiori, c’era la vita d’albergo con i camerieri e le stanze rifatte, altri amici. C’era mio padre che si fidanzava ovunque come un marinaio. C’erano donne con una riga sugli occhi e il golfino sulle spalle, e uomini in calzoncini corti coi calzini e i sandali. C’erano cose da scoprire, come la nebbia che ci faceva scomparire. Cose diverse da assaggiare e ,semmai, mangiare. C’era la Coca Cola, il flipper, il biliardino (“Non girare! Non vale”), il trovarsi in mezzo al prato con un temporale. C’era che si doveva imparare a nuotare, o a sciare, o a conoscere animali terribili o bavosi o volanti. Si doveva dimostrare di essere educati, bravi a scuola, fiduciosi nel futuro, coraggiosi e anche vivaci , di spirito e di corpo.

La mia famiglia passava il mese di agosto al Terminillo, in un tornado di bagagli. Un luogo non lontano, ma il viaggio in macchina era attraversamento di un deserto. Si arrivava sfilacciati, lo stomaco rivoltato come un calzino, la testa dondolante. Mi davano la xamamina per il mal d’auto ma la vomitavo molto prima di Rieti. “Vieni davanti”, diceva allora mio padre, e mentre tutti i Grandi si stringevano dietro, io mi allungavo sul grande sedile accanto a lui, la testa appoggiata alle sue gambe, e anche se stavo meglio, facevo finta di stare ancora male.

All’arrivo c’erano bambini nuovi, anche di altre città. Ci si annusava come cani. La danza delle simpatie e delle ostilità era ancor più fatale. Con naturalezza si formavano gruppi che erano in realtà vere e proprie bande, più compatte di un esercito, con regole, capi e vittime. In ogni spazio aperto si giocava alla guerra, come per la memoria di una ferita infetta. In sostanza c’erano gli amici e c’erano i nemici. A Terminillo ci si perdeva nei boschi e si organizzavano, contro la banda nemica, battaglie a colpi di cacca di mucca. Ma avevamo anche bastoni, e sassi, e imparavamo a parlare con le parole dei cattivi. Solo da cattivi, infatti, avevamo capito che potevamo non mangiare quel piattino di vita scialba che i Grandi ci mettevano sotto al naso. Una vita di messe, vestitini buoni e buoni sentimenti, di convenzioni che dovevano ancorarci ad un’esistenza tranquilla, che dovevano farci sentire l’appartenenza ad un popolo che non voleva piu’ aver fame. Durante le vacanze assaggiavamo una libertà che poi non avremmo mai smesso di inseguire.

Così correvamo. Il palpito dell’essere rincorsi e del riuscire a scappare. L’emozione di acchiappare il nemico e gridare vittoria. E avremmo continuato a correre , anni dopo, contro il potere e contro l’altra banda. Ma noi avevamo ragione, ne sono convinta ancor più oggi, alla luce abbagliante dei bui misteri d’Italia. Noi bambini nati in anni dimessi , entrando in quelli del boom, sapevamo già molti segreti, e li avremmo riconosciuti con certezza assoluta tra le bugie dei potenti anche da adulti.

I vestiti della nostra generazione erano troppo larghi o troppo stretti. Erano troppe le cose da fare e troppe quelle da non fare, troppi i lacci con i quali i Grandi imbrigliavano la nostra fantasia. Troppa la loro smania di diventare, di avere, sembrare “di più”. Nel tempo le loro commedie ci sarebbero sembrate patetiche, o anche odiose. Non riconoscere l’autorità dei nostri padri e delle nostre madri ci avrebbe portato a non riconoscere alcun potere. I bambini dell’altra banda, invece, accettavano la banalità e la trasformavano in arroganza. Sarebbero stati palazzinari in ogni professione, volgari ed eterni, fieri del non sapere. Noi volevamo, ci spettava, un mondo diverso e una vita migliore. Non era chiedere tanto. Abbiamo provato ad avere l’uno e l’altra, ma spesso per cercare di aver l’uno si perdeva l’altra e viceversa.

La spiccata attitudine che dimostravo per la disobbedienza, conquistata anche durante quelle vacanze in cui mi trasformavo in una creatura piuttosto selvaggia, convinsero mio padre a mandarmi in una scuola per signorine. Fu iscritta anche Daniela. E proprio lì perfezionammo la nostra dedizione al disincanto. Era una scuola dove si andava con la divisa. Mio zio Duilio quando mi vide la prima volta con la gonna , il golfino blu e i calzettoni bianchi mi disse: ”ecco, così sembri proprio un’orfanella. Togliti sta roba!” Ma non si poteva. Me la toglievo appena tornavo a casa, infilandomi i jeans dell’estate e vecchi maglioni di mio padre. I n quella scuola la divisione per bande era netta: ricchi, poveri, intelligenti, imbecilli, buoni, cattivi…Non si studiava nulla, anche perché il nostro futuro era di femmine borghesi e gravide: meno sapevamo, più facile sarebbe stato controllarci. Io e Daniela fumammo la nostra prima sigaretta nel parco della scuola a nove anni, imparammo l’ipocrisia, l’invidia, la gelosia, la malignità e anche a come difenderci da tutta quella spazzatura . Imparammo pure a dire molto bene le bugie. Tra i soldatini in gonna a pieghe si salvavano poche ragazzine e con loro stabilimmo solidi patti di solidarietà , simili a quelli che tanti anni dopo stabilimmo con altre donne, pensando insieme di cambiare gli uomini e noi stesse. (continua)

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