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Racconti

Il Palazzo, Io

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Io

Quello che mi rendeva diversa dagli altri bambini era non avere la mamma. Lei abitava nei sospiri della mia famiglia e nei bisbigli dei Grandi intorno a me. Sempre presente, ma se la cercavo non c’era mai.
Così, non ero spesso di buonumore.
Vivevo con i nonni, due zie, mio padre qualche volta, una tata che si chiamava Adele e un’altra, che venne dopo, che si chiamava Lucia. Ho amato Adele e odiato Lucia. Ho continuato ad odiarla e non credo di avere mai smesso.
Mia nonna era il manovratore. Aveva un cuore stracciato e il sangue le scoppiava fuori dal naso ogni volta che si agitava. E si agitava spesso. Aveva le gambe enormi, e le vene che le andavano su per i polpacci come dei pitoni. Anche le braccia aveva enormi. D’estate mi diceva di mettere le mani sotto le sue maniche, se volevo sentire il fresco. Era vero: lì era fresco. Malgrado i suoi poteri, però, era sempre triste. Piangeva mentre cucinava, mentre cuciva, mentre mangiava, mentre pregava. Io allora andavo tra i divani del salotto e la finestra, dove tutti facevano finta di non trovarmi. Un’ isola. Uno spazio dimenticato dai Grandi, tra le tende. Se alzavo gli occhi vedevo un pezzo di cielo e la luce aveva dentro polvere d’argento.

Mio nonno era basso. Quando cominciarono a cadergli i capelli si rasò completamente. Si rasava ogni mattina, facendosi la barba, come se il suo viso e la sua testa fossero un’ unica cosa. Probabile fosse vero: a 13 anni era partito da un cucuzzolo molisano, clandestino su un piroscafo per l’America. Solo. Se non avesse avuto testa, e se non avesse saputo sorridere, e mostrare i denti, non ce l’avrebbe fatta. Invece era diventato ricco e due volte l’anno partiva per Buenos Aires per controllare “gli affari”. Faceva l’orefice, lavorava in casa. In piccole scatole aveva pietre di tutti colori e nascondeva l’oro in panni neri. Io so riparare gli orologi, lui mi ha insegnato. E mi faceva guardare quando le signore venivano a farsi bucare le orecchie. Aveva una pistola con un ago da una parte e un sughero dall’altra. In mezzo ci andava il lobo. Lui sparava. Usciva una goccia di sangue e poi si sentiva l’odore dell’alcool. “Non è niente, passa subito”. Io mi sentivo le ginocchia molli, e credo anche la signora .
A casa mia si parlava un po’ argentino e un po’ italiano. Quando cominciai ad andare a scuola c’erano delle cose di cui non sapevo il nome in italiano e mi offendevo se non mi capivano. A casa, però, rifiutavo di parlare quella lingua che li univa tutti con un filo celeste, e credo fu una delle prime cause di quegli sguardi che ancora oggi mi sento addosso. Sembrava si chiedessero da dove venivo. Certo pensavano che se anche mia nonna aveva chiuso le porte alla famiglia di mia madre che, per suoi imperscrutabili e mai contestati motivi, tanto poco le piaceva, qualche contaminazione c’era stata. Non era stata abbastanza veloce. Ero una mulatta: né di qua né di là. Ma vivevo di qua.

Le zie erano molto diverse tra loro. Ogni tanto si picchiavano in silenzio in fondo al corridoio. Se le davano e si graffiavano, ma quella lotta tra erinni si svolgeva come in un acquario. Se mia nonna le sentiva, dava loro il resto. Mio nonno, invece, poteva anche passargli accanto senza dire una parola. Credo che il contendere fosse mio zio, quello che poi sposò felicemente la più bella. Una usciva e comprava per tornare e trionfare: “Ora ho tutto!”, l’altra suonava il pianoforte, disegnava, leggeva, scolpiva. Una era sveglia, l’altra come appannata. Ma non si poteva mai dire di sapere cosa avessero in mente tutte e due. Avevano i pensieri come gomitoli impicciati e nulla era mai come sembrava, nulla sembrava ciò che era.

Un linguaggio sotterraneo scorreva come un fiume tra i piatti dei nostri pranzi, scivolava denso tra le stanze della nostra casa mentre vivevamo la vita di ogni giorno. Da tutto questo mio padre era escluso. Fratello subìto, che si doveva amare ad ogni costo. Non che se ne sia mai accorto.

Io ero proprietà di Aurora. Un corpo bellissimo, un viso adunco.
Mento, naso, fronte: tutto sporgeva. Si protendeva in avanti come se avesse bisogno di più aria . Non so come e quando si firmò questo contratto, ma nessuno lo mise mai in discussione. Nemmeno Agar, che doveva occuparsi di me quando lei non c’era. Nemmeno mio padre. Perche’ lui era sfasato. Viveva sorridendo, con l’aria del pugile che si chiede come mai non lo fanno più salire sul ring. Non c’era possibilità di entrare in quel suo bozzolo di dolore e la farfalla non è mai riuscita ad uscire. La morte di mamma era un labirinto a forma di “perché” e lui ci girava dentro. Era bello, gentile, aveva altre donne, aveva il suo lavoro che rendeva tutti fieri delle cose straordinarie che faceva venir fuori dai mattoni e dagli spazi. Aveva me. Ma non gli bastavo. Odiavo quella mamma che mi dicevano “in viaggio”, e che ci aveva condannati a sentimenti tanto complessi quanto mediocri.
A cinque anni sapevo leggere e scrivere, le mie zie mi avevano insegnato.
Scrivevo a mia madre delle lettere che poi non sapevo dove spedire.
Proprio quando pensavo di essere finalmente riuscita a raccontarle tutto.
Mio padre mi abbracciava troppo forte. Ma guardava me e vedeva mia madre. Io lo sapevo. Ero piccola, ma lo sapevo. Perché lui piangeva: e perché doveva piangere se io ero viva? Sapevo una cosa, come si sanno le crudeltà essenziali: se io fossi morta mio padre non avrebbe sofferto per me nello stesso modo. Aveva già avuto il suo danno. Bisogna diffidare di chi è stato danneggiato, così nel profondo e improvvisamente. Anche nelle sue ultime notti bisbigliava: ”Dodo, soffoco…”, e secondo me lei era lì. Era sempre stata lì, con quel suo diminutivo piccolo piccolo, che io non avevo mai pronunciato, e che tra le stelle spediva me. Astralmente esclusa.   (continua)


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