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Racconti

Il Palazzo, Le donne

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Le donne

Le donne belle erano rare . Attrici , ballerine, indossatrici o mogli di onorevoli. Non che fossero toniche, come le donne di oggi che fanno ginnastica, sono figlie di donne che hanno fatto danza, e mangiano sano. Ma, insomma, era un piacere guardarle e annusarle. Non avevano rattoppi sul golfino, calze con rigolini di smagliatura, gonne impataccate. Le più stravaganti si depilavano perfino, ed erano lisce . Donna Letizia le avrebbe volute tutte così, e tutte la leggevano, ma poche seguivano i suoi consigli.
Ogni sabato veniva a trovare mia nonna una signora bella e tintinnante. Aveva bracciali ed orecchini e collane, un profumo forte di tuberosa. Nilde. Ero contenta di vederla e di annusarla. Anche mio nonno, che di solito si rintanava in altre stanze durante le visite delle amiche di mia nonna, era contento di vederla. Nonna tirava fuori il servizio da té con il bordo d’oro, piazzava le figlie a suonare il piano e andava in cucina a preparare tartine. Un sabato volli far vedere alla signora Nilde un nuovo gioco, un palombaro che scendeva nell’acqua tra bollicine. Dove l’avevo lasciato? Nella vasca, naturalmente. Là dove Lucia aveva messo a bagno le lenzuola della settimana, senza badare che il mio palombaro potesse esserne infastidito. Così cominciai a cercarlo tra le lenzuola e la lisciva. E  caddi dentro. Un attimo, e le lenzuola mi avevano avvolto e tirato sotto. Non riuscivo a venir fuori e bevevo acqua,  notti agitate e lisciva. Probabilmente stavo morendo. Strana sensazione, come di sonno invincibile. Qualcosa mi tirò su : il braccio peloso di Lucia “Scema, mi vuoi far licenziare?!”
Mi ritrovai sul mio letto, tutti i Grandi intorno, anche la signora Nilde che mi accarezzava.

“Il palombaro…” le dissi, e lei, “poverina, delira!”
Anni dopo mio nonno, ormai svaporato, confidò a suo nipote Alessandro (che ero sempre io ma lui non mi vedeva più né come femmina né come nipote) che uno stupido incidente domestico aveva interrotto il suo solito cincischiare sotto le gonne della signora Nilde, dietro alle spalle delle figlie che suonavano il piano, l’orecchio teso a sentire se mia nonna tornava con le tartine e il té. Alessandro ne  sentì parecchie di quelle storie, riallacciando così i suoi ricordi con quelli del nonno e di tutta la famiglia

Anche mio padre amava le donne. Anzi, ne era ossessionato. In uno schizzo del suo amico Amerigo Tot , un’enorme vagina, la dedica è “il tuo inferno”.
Per incontrare i suoi diavoli si vestiva con la cura di un torero. Nella sua stanza aveva un armadio disegnato da lui, con tanti piccoli cassetti: una camicia, un golf morbido, tre cravatte, i suoi fazzoletti bianchi che bisognava stirare e piegare sempre allo stesso modo. Nel portagioie che era stato di mia madre teneva i gemelli, e certe stanghette d’osso che infilava nei colletti per farli stare dritti. Mia nonna mi permetteva di entrare nella sua stanza per la vestizione, ma solo se lui era già abbastanza vestito.
“Sei ‘abbastanza ‘ vestito?” chiedeva da dietro la porta.
Mi sedevo allora sul suo letto e imparavo che si poteva mettere insieme il celeste con il verde, ma mai, mai il rosa col marrone. Che il blu era elegante, il nero troppo austero. Lo scozzese andava bene solo se piccolo e discreto. Che le stoffe dovevano essere morbide. Che bastava un gioiello, uno solo, come il suo anello di onice con un brillantino nel mezzo. Che i vestiti dovevano essere spazzolati e le scarpe lucide. Mai patacca doveva macchiare il nostro onore. Il mio colore preferito doveva essere il rosso, perche’era il colore dell’allegria e io dovevo essere allegra e appassionata, anche se non ne avevo affatto voglia. Ero una bambina piuttosto malinconica e solitaria, e quando incontravo altri bambini o li sottomettevo o non mi interessavano. Non era il rosso il mio colore. Guardavo papà, seduta sul suo letto, annodata nella gelosia. Guardavo con occhi di strega delusa. Nessuna parola, nessun avvento, avrebbero potuto trattenerlo, tenerlo lontano da una donna che in quel momento gli piaceva. Lui indossava la sua maschera in silenzio con gesti che potrei ripetere. Le donne ne erano incantate, e anch’io. Ogni tanto mi sorrideva:
“Pallino, tanto sei tu la fidanzata di papà…”

Ci facevamo l’occhietto, come mi aveva insegnato, complici. Complici di niente, perchè non gli credevo. Papà raccontava molte bugie, non era mai fino in fondo sincero e mai, però, fino in fondo bugiardo. Aveva una sua verità, come tutti, e ci disegnava sopra. Bene, come sapeva disegnare lui.

Fece n’uocchio a zennariello a lo sparuto nnammuratiello…

“Metti il profumo a papà”. Sempre lo stesso profumo, che ogni tanto sento entrando a casa mia, che prima era sua. “ciao papò”, gli dico, e mi viene da sorridere. Non se ne va. Non se ne andrà mai.
Teneva il suo filtro d’amore in bottigliette di vetro colorato e lo travasava con imbuti piccolissimi, poi riavvitava un tappo che finiva con un palloncino legato ad una nappina. Appena papà era pronto lo dovevo pettinare e dirgli che gli volevo bene:
“Quanto?”
“Tutto”, dovevo dire.
Quando quei temporali di profumo , fruscii e bugie finiva, varavo mio padre verso le sue serate complicate. Infatti attirava una donna e subito aveva il problema di allontanarla. Cosa che faceva versandole nel cuore una pozione bollita con i sensi di colpa, me, mia madre, sua madre, le sorelle, le responsabilità, il lavoro, il dolore, i “non posso” che le faceva dannare, sesso ma solo con amore, amore ma solo senza sesso, la religione e la rabbia verso Dio, quindi ancora sensi di colpa, il doversi salvare da tutto, la paura della morte ma non di morire, la solitudine voluta, o subita, o cercata, l’incommensurabile profondità del suo essere altrove, la superficialità e il troppo rigore, l’assenza di un progetto, il desiderio del progetto, la negazione del progetto…
Molti uomini della mia vita erano semplici, ma io ho continuato a credere che fossero creature complesse, scardinando così amori che avrebbero potuto essere maestosi e invincibili come la semplicità stessa.
Aveva solo donne belle, papà  E le donne belle erano guardate con sospetto. In qualsiasi film, in qualsiasi libro, si poteva ben vedere quanto fossero cattive d’animo e che brutta fine fosse loro riservata. Se si pentivano forse potevano salvarsi. A patto che morissero, naturalmente. Io e Daniela volevamo diventare belle. E anche speciali. C’erano pomeriggi nei quali noi femmine si pianificava il futuro con l’attenzione di un ragioniere. C’erano bambini nei progetti delle altre, né io né Daniela, invece, ne parlavamo mai. E non ne abbiamo avuti. Mia zia Aurora aveva idee confuse sulla femminilità, ma le piaceva stare con noi a parlare di quando saremmo state donne. Pur non affrontando mai il drago, il sesso, ci aveva terrorizzato e incuriosito con la storia delle mestruazioni. Erano un grumo di dolore, si’, ma anche il Segno. La femminilità. Noi non si era convinte per quella faccenda del dolore, ma un giorno decidemmo che era ora di averle. Serviva sangue? Daniela si fece un taglio sul braccio, asciugammo il sangue con le nostre mutandine e  le portammo come un trofeo da mia zia. Eravamo troppo piccole per avere le mestruazioni, ma lei aveva del tempo un senso vago. Ci fece molte feste. E com’era strano che proprio noi, così amiche, le avessimo avute nello stesso giorno. E come eravamo fortunate. E come sarebbe cambiata la nostra vita! Tanto entusiasmo mia zia pensò di dividerlo con la mamma di Daniela, che invece aveva del tempo e delle cose una visione precisa. Daniela restò in castigo un bel po’, senza scendere in Cortile né potermi parlare. I tubi del riscaldamento del nostro salotto mi portavano gli urlacci che sua madre faceva nel loro. Le parole non si capivano, si perdevano nell’acqua calda, ma i toni erano indimenticabili. C’erano mamme che avevano un codice segreto per parlare ai figli, e anche quando li rimproveravano, il codice traduceva le cose cattive in buone. Gli schiaffi, così come arrivavano così ripartivano. Solidi e bollenti come ghiaccio, si scioglievano dopo poco in uno sguardo, una merenda, una carezza .

Quel codice la mamma di Daniela non era riuscita a trovarlo, ed i suoi schiaffi erano di pietra. I tubi mi portavano una voce di strega. “Fatti gli affari tuoi” mi diceva Lucia vedendomi attaccata a qualche termosifone. E li faceva diventare miei, perché andava da mia nonna e le diceva che ascoltavo di nascosto quello che succedeva di sopra. Era cosa da punizione e mia nonna aveva fantasia per le punizioni. Ero terrorizzata da un crocefisso che era nella sua stanza, gli occhi rovesciati all’indietro, la bocca aperta, chiodi enormi nelle mani e nei piedi. E infatti:”Vai nella mia stanza, spegni la luce, chiudi la porta. Voglio sentirti dire: non ascolterò mai più quello che non devo sentire. Trenta volte.”. Piangere era solo perdere tempo. Andavo, che se l’avessi potuta ammazzare l’avrei fatto, e in mezzo alla stanza buia sfidavo la statua insanguinata. Mi sembrava di odiarla tanto che poi me ne pentivo. E non sapevo più se dovevo chiedere perdono a Gesù, a mia nonna, alla madre di Daniela o alla vita stessa per occuparne indegnamente un posto. Nemmeno mia nonna aveva trovato il codice segreto. Per quella storia delle mutandine macchiate mia nonna sfregiò l’anima di mia zia Aurora con poche parole: ”Da quando sai tanto bene essere una donna da insegnarlo alle bambine?”. Mia zia, ogni mattina non si riconosceva nello specchio, appuntita com’era. La nonna l’aveva addestrata ad una scialba illibatezza mentale che le faceva chiasso dentro e non la faceva esistere con armonia. Aveva uomini segreti, uomini sposati, o che si sposavano mentre stavano con lei. Bisogna essere molto soli e disperati per farsi sudare addosso da persone inutili. Era davvero sfortunata in amore. Uno dei suoi fidanzati le morì tra le braccia proprio a casa nostra. Eravamo tutti a cena, e lui era venuto a prenderla per portarla al cinema. Entrò per salutare. “Scusate..” disse, poi sbiancò e cadde. Non seppi mai se si era scusato per aver interrotto la nostra cena o per essere venuto a morire nel nostro salotto.
La storia delle mestruazioni fece il giro delle famiglie del Palazzo, che a nessun’altra bambina venisse in mente di fare una scemenza come quella mia e di Daniela. Le altre femmine, ci isolarono. Noi avevamo fretta di crescere, e quella fretta era peccato.
Minacciavamo il giusto scorrere del loro tempo. Perché è vero che il Tempo ha le sue regole e chi non le conosce perde la partita. Non so se io e Daniela abbiamo perso la nostra, ma valeva comunque la pena di essere giocata. Mentre loro si apparecchiavano un futuro da nani da giardino, polvere e gesso, noi ne sognavamo uno da fontane. (continua)

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