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IL PROFESSOR PRODI E LE COALIZIONI

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Nel PD c’è maretta sulla formazione delle liste per le elezioni europee del 26 maggio: vanno aperte anche a chi, non più di due anni fa, se ne andò per farsi un altro partito? La questione non è di facile soluzione: si tratta, in fin dei conti, di legittimare o meno una scissione le cui ferite sono ancora aperte.
Qui, però, non tratto di questo pur importante problema di oggi, bensì del modo in cui lo ha commentato – con riferimenti al passato – Romano Prodi. Leggo (da Goffredo De Marchis su la Repubblica – virgolettato): “O si fanno le coalizioni oppure si perde. Io l’ho capito benissimo che si devono fare le coalizioni. Forse in anticipo. Per questo ho fatto l’Ulivo”.
Con tutta la stima per il Professore (così lo presenta De Marchis) l’enunciazione mi sembra molto sbrigativa e, almeno in parte, smentita dai fatti. E’ indubbio che le due vittorie elettorali che gli hanno aperto le porte di Palazzo Chigi, Prodi le ha riportate guidando una coalizione; ma è altrettanto certo che in ambedue i casi, dopo un paio d’anni, quelle stesse coalizioni persero pezzi non riuscirono a stare insieme e determinarono la caduta dei suoi governi.
Nel 1998 a vanificare la vittoria dell’Ulivo del 1996 ci pensò Bertinotti. Nel 2006, scomparso l’Ulivo non c’erano più neppure i collegi uninominali, sostituiti da un premio di maggioranza assegnato a chi prendeva un voto in più. Prodi costruì l’Unione, una coalizione larga con dentro tutti che, sia pure per un soffio, tagliò per prima il filo di lana; ma era a tal punto disunita e sgangherata che nel 2008 il suo creatore dovette gettare di nuovo la spugna.
Turigliatto non aveva la statura politica di Bertinotti; ma anche lui agiva su quel fianco sinistro lungo il quale lo schieramento di centrosinistra registra di solito le falle e le defezioni che lo mettono in crisi. E’ lo stesso fianco che oggi Zingaretti si affanna a presidiare; gli auguro che i risultati siano migliori di quelli esperiti da Prodi, anche se non mi è facile capire perché oggi le cose dovrebbero andare diversamente.
De Marchis fa seguire una sua chiosa alla enunciazione del Professore. “Il discorso – precisa – sembra valere per le Politiche dove ci sono i collegi ma anche per le Europee, dove gli accordi sono utili per ottenere un voto in più”. Il senso delle parole di Prodi è senza dubbio questo; ma proprio lui sa bene che ci sono occasioni nelle quali è meglio non sacrificare una posizione politica a obiettivi elettorali che, pur apparentemente migliori, compromettono quella stessa posizione.
A ottobre del 1998, quando fu costretto a lasciare Palazzo Chigi dal rifiuto di Bertinotti, non gli sfuggivano le manovre di non pochi complici acquattati all’ombra dell’Ulivo. Pochi mesi dopo decise perciò di presentarsi alle elezioni europee del 1999 da solo; da solo, altro che coalizione! Lo fece con la denominazione “I Democratici” e con il simbolo dell’asinello; prese quasi due milioni e mezzo di voti, il 7,73% ma soprattutto ottenne un successo politico perché dimostrò la inconsistenza delle posizioni di quanti avevano congiurato contro di lui.
Il fact checking è utile sempre, non solo sui social. In questo caso dimostra che le coalizioni, se mal fatte, possono farti prendere più voti ma poi determinano la tua caduta e – soprattutto – la rovina della politica che vorresti fare. Anzi, in qualche caso, per affermare e difendere quella politica devi perfino – come fece Prodi nelle europee di venti anni fa – competere da solo. Se le tue sono buone ragioni troveranno riscontro e anche i voti non mancheranno. Se, invece, sacrifichi la politica a convenienze immediate e precarie, non ci sono voti che tengano.

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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