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Io candidato a Roma

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Verso la metà degli anni ottanta l’Italia politica accusava il peso di una situazione anomala, perdurante ormai dalla data di nascita della Repubblica.

 

Quasi quarant’anni di democrazia bloccata, vigilata, messa sotto controllo da alleati diffidenti. Gli si poteva dar torto dopo le vicende tragiche e tumultuose della guerra mondiale appena conclusa? Direi di no.

 

All’epoca, messi in archivio successi elettorali travolgenti ma inutili ai fini dell’assunzione di un ruolo vero nel governo del Paese, il Pci di Enrico Berlinguer si trovò in mezzo al guado. La guida dell’opposizione di sinistra largamente più corposa della nazione gli imponeva fedeltà, almeno nominale, al credo comunista che tanto aveva contribuito alla costruzione dei successi del partito. L’apparentamento con la casa madre sovietica provocava insofferenza crescente, ma continuava ad impedire di fatto la svolta necessaria per uscire dalla sterile palude antagonista. Il tutto mentre l’establishment governativo si faceva ogni giorno più molle e corrotto.

 

Berlinguer, pressato dagli eventi, subì la fascinazione di un impossibile dialogo con la Democrazia Cristiana, lasciando di fatto mano libera allo spregiudicato Bettino Craxi. In seguito, la sua morte improvvisa lasciò i suoi eredi colpevolmente impreparati alla gestione del crollo dell’impero sovietico, culminato nel 1989 con la demolizione del muro di Berlino. Sopra quelle macerie nacque, col consueto lungo travaglio e sotto la guida di dirigenti non particolarmente brillanti, l’odierno Partito Democratico.

 

Oggi Matteo Renzi, dopo le sconfitte elettorali di Roma e Torino, si trova in una condizione che in qualche modo ricorda quella di Enrico Berlinguer negli anni ottanta. Nel ruolo, ancora più scomodo, di leader di governo dal piglio riformista che rischia però di veder vanificati i suoi sforzi di ammodernamento di un paese in ritardo praticamente su tutto.

 

Chi scrive è reduce da un’esperienza politica recentissima, in qualità di candidato alle elezioni amministrative di Roma. Sono pertanto in grado di testimoniare, avendo tastato il polso cittadino in presa diretta, sul pauroso livello di disaffezione da parte del corpo elettorale riguardo alla politica in generale. Ma in particolare, ho avuto modo di toccare con mano la crescente avversione che si sta raccogliendo intorno al partito che Matteo Renzi ha scelto, commettendo un errore ormai certificato da troppi fatti, di guidare da segretario in contemporanea al ruolo di premier.

 

Il Pd è nato male ed è giunto peggio al capolinea. E’ora di abbandonarlo al suo destino, se si vuole arginare l’ondata nichilista che rischia di travolgere un paese dalle fondamenta politiche eternamente incerte, viziate in partenza e rese ancor più fragili nel corso degli anni dagli eventi che abbiamo sopra ricordato.

 

Solo in questo modo sarà fatta chiarezza nell’assetto politico italiano e potrà finalmente vedere la luce la Terza Repubblica, imperniata sulla contrapposizione di stampo tipicamente occidentale tra una compagine moderata di centrosinistra e una (per la verità ancora tutta da inventare) di centrodestra, entrambe affrancate dai perniciosi fantasmi di fascismo e comunismo che ancora infestano il belpaese.

 

Renzi è giovane, ha ancora possibilità di vincere la scommessa più importante. E’ necessario però che si liberi definitivamente dei nemici interni, che hanno minato fin qui il suo progetto e favorito di fatto in tutti i modi l’ascesa della marea populista.

 

Se è vero che nei programmi futuri del leader fiorentino c’è una nuova formazione politica liberaldemocratica orientata a sinistra, il momento di concretizzarne la nascita dovrebbe essersi avvicinato di molto.

 

Coraggio, e auguri.

 

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