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La difficoltà di chiamarsi mamma

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Nei primi anni ’70 mi ero appena laureata quando una società pubblica offrì a me e altri giovani (tutti uomini) una borsa di studio per affrontare un lavoro molto difficile che avremmo portato a termine, dopo un periodo formativo, nelle aziende del gruppo. Io e un neo-ingegnere fummo destinati a un’impresa di confezioni maschili a Torino. Credo di essere stata l’unica a completare il lavoro. Ma, sebbene il mio compagno non avesse mai capito cosa effettivamente stavamo facendo, il Direttore amministrativo, che pure faceva conto su di me per tutti i suoi compiti più difficili, al momento dell’assunzione, mi disse: “So che il lavoro lo hai fatto solo tu, ma io devo offrire il posto al tuo collega perché un giorno tu ti sposerai e farai dei figli”.
Fu una negazione del mio diritto che determinò una ferita nel mio desiderio di fare il manager. Poi, non mi sposai, non feci figli però, insieme alle donne del movimento femminista, ho lottato anche per ottenere il diritto all’eguaglianza nel lavoro senza abdicare all’essere donna e madre. Una strada in salita, ma che aveva un percorso, degli obiettivi e una meta. Oggi, invece, le donne che hanno i diritti li vedono ogni giorno infranti. Come si combatte per avere diritto a ciò che la legge impone ma che la prassi non accetta?
Di questo parla il bel libro di Chiara Valentini “O i figli o il lavoro”. Un libro di civiltà, ricchissimo di argomenti, che con scrittura garbata si oppone alla violenza dei comportamenti. Però, anche, un libro che mette i brividi.
Le mille e più storie vere di donne che l’autrice raccoglie raccontano di un paese senza cultura, dove le aziende, siano esse grandi o piccole, non vogliono le donne-mamme: che se ne stiano a casa! Un paese dove 800 mila donne nel corso della loro vita lavorativa sono state licenziate o costrette a dimettersi a seguito di una gravidanza, dove il più basso tasso di natalità è correlato al basso tasso di sviluppo. Un paese capace di pensare solo a una ricchezza speculativa, dove molti imprenditori ragionano così: sono competitivo perché pago meno gli operai, sono competitivo perché frodo il fisco, sono competitivo perché non guardo al futuro. Sono competitivo perché quando una donna resta incinta e dovrebbe essere tutelata io la licenzio. Come faccio a licenziarla? Le faccio firmare al momento dell’assunzione una lettera di dimissioni, le creo intorno una situazione impossibile, la relego a lavori così pesanti che dovrà dimettersi pena la perdita del feto. E come faccio a fare del mobbing efficace? Mi affido ai corsi di mobbing strategico, che sono segreti e per soli dirigenti uomini. Oppure uso la violenza verbale che mi è propria. La chiudo a chiave nel magazzino e la insulto e la minaccio fino a quando per lo spavento cederà.
Loro, le donne licenziate, offese nel loro diritto alla maternità cercano vie nuove per resistere. Aprono blog, si aiutano. Ma di certo occorreranno nuove leggi, come quella contro le dimissioni in bianco o per il congedo di paternità obbligatorio, per garantire a tutte il diritto a fare figli, soprattutto la società deve pretendere che le leggi siano applicate, i diritti garantiti, il controllo effettivo. E’ necessario, come l’autrice avverte in conclusione, che la società esiga la dignità e il rispetto delle donne.

Chiara Valentini, o i figli o il lavoro, Feltrinelli, 2012.

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LIA MIGALE

è scrittrice ed economista. Tra le sue pubblicazioni non scientifiche i racconti In un altro luogo (1996) e il romanzo Malamore (2001) – entrambi per Empirìa – e La donna del diavolo (Voland 2009) e Piccola storia del femminismo in Italia (Empirìa 2016).

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