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LO STALKER

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I

I muri di mattoni erano rosso vivo, come il rossetto sulle labbra della donna e il sangue che le sporcava il viso. La pioggia scendeva con uno scrosciare furioso, le gocce formavano un muro. Un lampione solitario illuminava abbastanza da ricordare il significato di oscurità e, a parte qualche piccione rannicchiato sotto i cornicioni, nessuno era nei paraggi. In piedi, di fronte a lei, un uomo in impermeabile semplicemente stava, con sguardo imperscrutabile ascoltava quello che la donna aveva da dire: «Che vuoi da me?» fece lei piangendo, le lacrime si mischiavano alla pioggia. I capelli nero corvino, zuppi, avevano perso la loro forma e le si erano incollati alla testa, il rimmel nero colava dalle palpebre miscelandosi al sangue.

Lui era impassibile, fermo la fissava. L’uomo sapeva cosa stava per accadere, non si poteva dire che avesse tutto sotto controllo, ma si divertiva a fare previsioni e quella volta pensava proprio che si sarebbero avverate. Il cappello che indossava, sotto il gran fragore del temporale, perdeva acqua da ogni parte della tesa mentre continuava a fissarla.
«Ti prego! Parlami!» urlò lei. Ma lui non si mosse.
Era tutto il giorno che quell’uomo la stava seguendo.
Qualche ora prima la donna camminava per le strade della città a passo svelto, coprendosi il viso dal vento che sferzava raffiche fredde. Si guardava ogni tanto dietro le spalle in maniera compulsiva. Ogni metro che percorreva sentiva qualcuno avvicinarsi sempre di più, qualcuno che voleva farle del male. Il suo passo accelerava, era quasi una corsa, il marciapiede era pieno di gente, ma lei sgomitando procedeva velocemente, le vetrine le sfrecciavano accanto, gira qui a destra si disse e smarcando l’ultimo gruppo di persone imboccò una via più vuota. Dritta. Sinistra. Di nuovo a destra, incrocio, ormai correva a perdifiato. Una mano stava per raggiungere la sua spalla, sentiva un passo pesante a meno di un metro da lei. Si catapultò in mezzo alla strada evitando le macchine e si lanciò come un uragano per le scale della metropolitana. Una valanga di imprecazioni dette a voce alta da chi scendeva o saliva accompagnavano la sua corsa forsennata. Non se ne accorse. Arrivata ai binari, vide un treno in partenza e scivolò tra le porte che stavano per chiudersi. Salva, pensò. Mentre boccheggiava con le mani sulle ginocchia, alzò lo sguardo, ma c’erano troppe persone sulla banchina per individuarne una in particolare. Il suono distante di un annuncio pubblicitario raccontava di una mirabolante panacea appena scoperta, ma lo stuolo di gente non vi prestava orecchio, troppo impegnati a fissare gli schermi che tenevano tra le mani. Qualcuno alzò lo sguardo sentendo ansimare la donna. Nessuno andò da lei, anzi sembravano impauriti alla vista di qualcosa di così reale che tornarono ben presto a contemplare i monoliti. Di tanto in tanto qualche uomo alzava gli occhi verso quella figura longilinea con i capelli neri appoggiata con le spalle alla porta chiusa. Solo un vecchio le si rivolse: «Ehi, tutto bene?», fece in tono paterno. Lei alzò gli occhi, lui si ritrasse impercettibilmente incrociando il suo sguardo malato. Prossima fermata Sanlitun – la voce dello speaker risuonò per tutta la carrozza. Lasciando l’anziano di stucco, la donna scese di fretta dal treno dirigendosi verso l’uscita della stazione, mischiandosi a una miriade di persone. La folla la faceva sentire protetta, sapeva che tenere il senso contrario avrebbe aiutato a seminare la figura che la stava inseguendo.
Le nuvole avevano raggiunto la città, aveva cominciato a piovere. Una coltre di ombrelli si aprì all’unisono intorno a lei, ombrelli di tutti i colori che adesso si muovevano sul marciapiede come in una danza. Girò per l’ultima svolta, una stretta via dai muri bassi di mattoni rossi. Un isolato la separava da casa, quella strada che aveva percorso migliaia di volte era stranamente cupa, il rosso dei mattoni si mescolava con la notte, solo un fievole lampione illuminava quello che poteva, lasciando gran parte del vicolo nell’ombra.
«Devi venire con me», fece l’uomo che le si parò davanti a metà dell’angusto passaggio. «Per favore non costringermi a usare la forza». Usava un tono pacato, quasi amorevole.
Il cappello a tesa larga e l’impermeabile erano l’unica cosa che si notava. Il viso era coperto dall’oscurità e dalla pioggia battente. La sua voce tranquilla e calda lo rendeva ancora più tetro. Lei avrebbe voluto fuggire, ma lui era riuscito a bloccarla in una rientranza del vicolo. La donna non poteva muovere un passo se non verso di lui.
«Anna, sai perché sono qui vero? Sai che è la cosa giusta venire con me. Non resistermi come l’ultima volta».
L’uomo fece un passo verso di lei tendendo la mano, non si distingueva praticamente nulla, Anna era una sagoma, a pochi metri da lui. La donna lo vide avvicinarsi, mettere una mano in tasca e tirare fuori un oggetto affilato. Si irrigidì. Poi tutto si fece rosso, le pupille le si strinsero come una capocchia di spillo, le si annebbiò la mente e l’unica cosa che distingueva era quella minaccia spaventosa che si avvicinava piano piano a lei. Si girò di scatto, afferrò un bastone spezzato appoggiato a un cumulo di immondizia e si scagliò contro l’uomo, gli vibrò una bastonata sulla testa. Il cappello insieme all’acqua che era sulla tesa schizzò via con una piccola nuvola di sangue, lui barcollò finendo con la schiena contro i mattoni.
«Smettila di perseguitarmi!», urlò lei avventandosi con tutta la forza sul suo aggressore, usando il bastone per infilzargli l’addome.
Il sangue usciva a fiotti dalla ferita, l’uomo vide gli occhi di lei che lo fissavano in preda a un raptus. Continuando a brandire l’arma, gliela infilava sempre più a fondo. Poi Anna fece qualche passo indietro, lasciando l’uomo impalato spalle al muro. Lo guardava. Il fiatone si trasformò in un respiro pesante, mentre il respiro di lui si faceva più fioco e veloce.
«Che vuoi da me?», disse lei piangendo. L’uomo non poteva rispondere, il sangue ostruiva la gola, colava dalla bocca.
«Ti prego! Parlami!». Lui stava lentamente morendo, ne era conscio. Nulla lo avrebbe salvato.
Lei non osava avvicinarsi, come se quell’insetto non fosse stato schiacciato del tutto, come se in qualunque momento quel serpente potesse scattarle addosso e morderla per poi ucciderla, se avesse avuto qualche altra arma avrebbe continuato a colpirlo fino a farlo sparire dalla faccia della terra. Scappò.
II
«Come andiamo oggi, Anna?», disse in tono bonario l’uomo seduto dietro la scrivania.
«Beh, dottore, sono abbastanza contenta, oggi sono riuscita a fare il tragitto da casa fino al suo studio senza correre… diciamo che non mi sono guardata tante volte dietro le spalle»
«Bene, hai avuto di nuovo qualche visita?»
«No. Niente di nuovo. Spero che abbia capito. Solo che come le ho detto anche la settimana scorsa, non mi sento sicura a mettere piede fuori casa»
«Un passo alla volta, Anna, stai andando molto bene e se si fa sentire di nuovo, non cedergli e non dargli retta, mi raccomando, ascoltarlo non è mai stato il modo giusto di agire»
«Dottore io non so se è la migliore scelta per me, mi faceva stare bene, io stavo bene»
«Anna, quando avevi lui per la testa, era una situazione pericolosa, ricordi? Sai bene che agivi non prendendo in considerazione nessuno, neanche te stessa, facevi tutto quello che ti ordinava. Eri apatica, ricordi?»
«Si, ha ragione», fece lei in tono accondiscendente, abbassando la testa.  «Solo che è così faticoso. Ma non voglio tornare in quella cella… lì non sono più io»
«Non è una cella, Anna, è stata la tua stanza, ma ormai non c’è più bisogno che tu stia qui, stai facendo tantissimi passi avanti. Sono fiero di te».
III
Tremante, intrisa di acqua fino alle ossa Anna entrò in casa. Lasciava impronte a ogni passo sul parquet liso da migliaia di passi. Si diresse velocemente in bagno gettando i vestiti nella vasca. China sul lavandino prese a lavarsi via il sangue che le colava dalla faccia fino al seno. Strofinava il viso con entrambe le mani in modo maniacale, quasi volesse portare via la pelle. Controllandosi allo specchio vide ancora qualche macchia rossa sulla clavicola. Si guardò e scoppiò in una risata fragorosa, era eccitata. Finalmente se ne era sbarazzata, non esistevano in quel momento conseguenze, era finalmente libera dall’uomo che la tormentava da così tanto tempo. Doveva dirlo al dottor Bennett. La segreteria telefonica registrata con la voce calda del dottore risuonava dalla cornetta.
«Dottore! Me ne sono liberata! Non mi interessa di cosa sarà, ma finalmente me ne sono liberata!».
Si andò a sedere sul divano, incredula. Non avrebbe mai pensato che si sarebbe tolta le catene che lui le aveva messo, e soprattutto non in quel modo. Era stato così facile uccidere. Non si sentiva diversa da prima, niente di tutto quello che aveva letto o visto nei film, lei era la stessa. Solo un enorme sensazione di vita le scorreva nelle vene. Con il sorriso di chi ha vinto una guerra, si addormentò.
IV
La pioggia era finita da un pezzo quando un uomo sulla cinquantina, barcollante per un dopo lavoro troppo alcolico, passando nel vicolo si accorse della figura sdraiata a terra con un bastone conficcato in pancia. A quella vista raccapricciante si sentì svenire. Riuscendo a stento ad arrivare all’uscita del vicolo, chiamò la polizia, che sentendo la parola “cadavere” si precipitò sul luogo in meno di 5 minuti. Riattaccando il telefono regalò all’asfalto tutto quello che aveva nello stomaco. Le luci blu si riflettevano sulle finestre che affacciavano tutte intorno. Cinque uomini scesero dalle macchine e transennarono con strisce gialle i due ingressi della strada.
«Un uomo sulla sessantina, alto un metro e ottanta, corporatura robusta, ucciso con un bastone», disse l’agente rannicchiato sul morto.
«Non ha documenti. Secondo il medico legale è successo da qualche ora».
Un altro agente si avvicinò all’ispettore, aveva un cellulare in mano.
«Era nella sua tasca signore, deve sentire questo»
Dottore! Me ne sono liberata! Non mi interessa di cosa sarà ma finalmente me ne sono liberata!
Il detective guardò perplesso il collega, poteva significare qualsiasi cosa.
V
Anna si svegliò dopo qualche ora di sonno. «Io sono ancora qui», le sussurrò nella testa una voce che conosceva orribilmente bene.
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