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Noi che abbiamo visto Cassius Clay

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Prima di Alì, fu Cassius.

Roma, 1960. Guardavamo questo colosso muoversi sul ring con gambe da ballerino, a dispetto del suo peso e della massa muscolare. Si esibiva con la sfrontatezza di un giovane dio, mostrandosi orgoglioso e potente nella sua nudità. A bocca aperta, come davanti a una raffigurazione plastica della perfezione, seguivamo i movimenti danzanti di questo ragazzo nero, lucido, perfetto come una statua greca. Non stile, non capacità tecnica, niente altro che un fenomeno naturale. Come il vento, come il temporale. Solo il suo viso era di ragazzo; sgranava gli occhi, ringhiava contro l’avversario come fanno i bambini quando vogliono fare paura.

O come facevano i suoi antenati, quei cacciatori che si ornavano con orgoglio delle loro prede. E come avrebbe fatto anche lui, indossando dopo ogni vittoria l’umiliazione inflitta all’avversario come un trofeo.

Ma la sua medaglia, e la sua gloria, in patria non contarono nulla. Quando tornò in America dopo le Olimpiadi, conobbe di nuovo la stessa negritudine che lo aveva costretto a difendersene coi pugni. Contro i bianchi, contro gli altri, contro tutti. Contro l’America, cui non bastava quella medaglia per farlo diventare davvero un suo figlio.

Come fecero più tardi tanti reduci quando capirono e rinnegarono il Vietnam, anche lui buttò via la sua medaglia. Nell’Ohio, giù giù, in fondo. Con lei seppellì per sempre Cassius, quell’assurdo nome da schiavo negro.

Divenne Alì, e lì non ce ne fu più per nessuno.

Il suo personaggio è sopravvissuto a tanti altri protagonisti della boxe anche per questo mai piegarsi, mai cedere, mai ubbidire. I lottatori lo sono sempre. Sul ring, nella vita. Sempre.

Ci ha insegnato a guardare sempre, comunque, avanti. Perché la sfida è in ogni domani che dobbiamo vivere, in ogni difficoltà che affronteremo, e supereremo, lottando.

Ehi tu, gringo. vieni avanti, vieni avanti, mi vedi bene? Sono qui che ti aspetto, vieni sotto che non mi fai paura, vieni sotto, avanti, dai, daiii…Prendimi se sei capace…Io colpirò te e colpirò il potere, stenderò te e atterrerò quei bianchi che mi chiamano negro di merda, spaccherò il tuo naso come fossero le catene che hanno tenuto le braccia dei miei avi, vieni sotto, dàai, gringo, vieni sotto, sono pronto per te, daaaiiii….

Di lui mi resta nel cuore, oggi e per sempre, l’immagine di Atlanta.

Nella festosa e pacchianissima festa di apertura, reggendo la torcia avvicinò il braccio incerto e tremante al tripode. Quel braccio che era stato un maglio potente, dritto e letale, reggeva la fiaccola con l’incertezza di un bambino. Ma ci riuscì. Per tutte le volte che era stato un ragazzino nero picchiato e deriso, per tutte le volte che era stato solo uno sporco negro. E per sé stesso, per quando era diventato Alì. Accese la fiamma olimpica e chiuse quel cerchio magico iniziato a Roma.

Lui, Cassius diventato Alì, quello che è stato riconosciuto come il più grande pugile di tutti i tempi, finalmente rappresentò tutto lo sport americano.

Immobile sul divano davanti alla televisione, lo guardo con la gola stretta e singhiozzo senza ritegno.

Franz chiede a mio marito perché io stia sta piangendo, non è una festa?

“È un vecchio amico della mamma, Franz. Faceva il boxeur. Eravamo tutti ragazzi. Tutti.”

Olimpiadi di Atlanta - 1996

Olimpiadi di Atlanta – 1996

 

 

 

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