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Attualità

Paolo Brogi Foto e storie delle vittime di Parigi

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Chi sei?
Paolo Brogi, giornalista, per quindici anni al Corriere della Sera in cronaca, per altri dieci prima nel settimale L’Europeo, prima ancora Reporter, free lance, Lotta continua. Ora curo un blog che ho chiamato Brog, sottotitolo le informazioni che fanno fatica ad uscire. Lo trovate su www.brogi.info, E poi scrivo libri, l’ultimo è “Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra”. Infine se capita apro pagine facebook…Oltre a collaborare col Corriere quando posso.

Come hai avuto questa idea?

Un po’ per gli stessi motivi per cui sei anni fa ho avviato il blog. C’era Rosarno allora e i miei colleghi scrivevano in modo troppo spesso superficiale. Non conoscevano gli antefatti. Non s’informavano in modo accurato. Di fronte ai morti di Parigi ho avvertito di nuovo trascuratezza. Faccio un solo esempio. E’ morto un poliziotto, Thiery Hardouin. E’ morta anche sua moglie. Però lei è restata solo la “femme” del poliziotto. E pensare che quella sera era il suo compleanno. A tutt’oggi non ha né un volto né un nome. Eppure a Parigi era presente un amplissimo apparato mediatico…
Sapevo anche che c’era da scavare. L’informazione si limita a volte all’evidenza. Così Asta Diakité, una vittima che è la cugina del centrocampista della nazionale francese, è stata “risolta” col tweet del giocatore che ha comunicato il suo dolore. Stop. Poi si è venuti a sapere che la giovane donna maliana è morta facendo da scudo umano al nipote. Ma lo scrivono in pochi…

È stato difficile trovare le biografie?
Prima ancora i fatti. Quanti di loro sono morti facendo da scudo umano a un amico, alla moglie, alla persona con cui erano insieme la sera del 13 novembre a Parigi? Il biker Rammant, un uomo robusto, ha protetto la moglie che è rimasta viva. Ludo Boumbas, il congolese, ha salvato Chloè. Nicolas Catinat, falegname, si è sacrificato per i suoi amici…Che cosa è successo davvero dentro il Bataclan e sulle terrazze dei bistrot e dei ristoranti del X e dell’XI non lo sapremo mai, forse…Come la povera Angelina che vegliava dentro il locale musicale il suo uomo ormai morto, Juan Alberto, finché un poliziotto non l’ha fatta allontanare e lei non l’ha visto più. Da quel momento anche lui era diventato un numero, uno dei 129 morti…

E le biografie?

Anche su questo fronte c’è stata oscillazione. E povertà. Hanno aiutato spesso i giornali locali. Ho consultato decine e decine di cronache. Sono andato in un centinaio di siti, non sempre riuscendo. Gli svedesi hanno celato accuratamente la morte di una loro giovane connazionale di Vasteras, periferia di Stoccolma.

Che senso dai alla tua pagina su FB?

Quella che ho visto gli hanno dato gli utenti di Fb che man mano vedevano le foto e commentavano. Poi qualcuno di loro, come Lidia Fasino da Palermo o Roberta Lepri da Grosseto hanno iniziato a darmi una mano. Che senso chiedi? Quello di far parlare i volti delle vittime quasi sempre sorridenti, intensi, intelligenti. Valeva la pena raccoglierli e metterli insieme in una pagina, anche quelli più complicati da trovare. E’ un ritratto collettivo. Valeria Gandus sul Fatto quotidiano ha usato il riferimento di Spoon River. C’è la loro voce e quella dei loro parenti. Ci dicono, sono parole di una vittima che si occupava di intelligenza artificiale, che l’oscurantismo è il nostro peggior nemico. Ci dicono col padre della vittima più giovane, l’armena Lola, una diciassettenne, che l’istruzione, l’umanesimo, la cultura – sono parole sue – costituiscono i migliori strumenti contro la barbarie. Ci dicono come nella lettera aperta scritta da un vedovo, che non avrete il suo odio.. Ci parlano questi volti di tante cose, ci ricordano l’esilio dei cileni, la battaglia che uno di loro aveva vinto col tumore, l’essere sopravvissuto di un altro a un precedente attentato in Algeria ma non a questo. Ci parlano del lavoro spesso inventato e rincorso. Ci indicano le passioni, la solidarietà come quella di Valeria con Emergency e con i senzatetto, di Vèronique con i suoi orfani malgasci, di Lacordaire con gli indigenti di Frémicourt…E ancora ecco l’amore che era appena sbocciato o che stava per sfociare in un prossimo matrimonio. Ci sono i sogni, i viaggi, l’Erasmus, le start-up, la musica…tanta musica (a proposito, la band che suonava al Bataclan nonostante il nome non è di metallari…), i compleanni, la dottoressa che faceva pagare 23 euro per una visita, la colletta fatta sul web per seppellire un ucciso, le professioni diverse compresa quella del liutaio, i molti figli giovanissimi che restano orfani del padre o della madre…

Mi nomini qualcuno fra le vittime che ti ha colpito di più?

Stéphane Hoche, cameriere, trovato morto sabato nel suo piccolo studiò dietro il Bataclan, colpito da una pallottola vagante. La sua sorte mi ha ricordato il libro di Thornton Wilder che si era interrogato sulla morte di cinque persone durante un terremoto nel Perù del ‘700, colte di sorpresa su di un ponte che stavano attraversando… Il ponte di San Luis Rey. Lì l’indagine la faceva fra Ginepro. Che nome…”

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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