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QUATTR O AMANTI QUASI CINQUE

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Immagine di Aglaja

Mi capita spesso, per lavoro, di pranzare in una trattoria a Garbatella. Qualcuno a volte suona. Oggi quattro ragazzi cantano “a cappella” blues e progressive. Bravissimi; e poi tanta gioventù e bellezza.
Le ragazze sono una eritrea e l’altra nordica, come i ragazzi. Mentre ballano cantando come solo i giovani possono fare, quelle chiome ricce e corvine o lisce e bionde si fondono e si separano per miscelarsi ancora. Quei corpi, persa l’asprezza dell’adolescenza, ricordano gazzelle e felini. Aggraziati e magici, scattanti e sensuali. Gli occhi, chiarissimi come acquemarine o neri come la notte, stregano noi spettatori. Vederli e ascoltarli è felicità.
Vocalizzo con loro “Eclipse” dei Pink Floyd. Cantare è come andare in bicicletta: se impari non lo dimentichi e la mia voce bassa, roca e nera, si contrappone alle loro, celestiali. Ma non è dissonante, anzi. Se ne accorsero e alla prima pausa siedono al mio tavolo. Primi approcci e comunichiamo già come vecchi amici. Riscopro in loro me stesso.
Dopo ci vediamo fuori. Una scusa inventata per il lavoro e siamo in un giardino. Sentirsi, annusarsi, toccarsi e scoprirsi sempre più simili. Stesse anime. Uguale il disgusto per ciò che ci circonda e per l’odio onnipresente. Uguale la speranza, flebile, in un mondo d’amore e d’armonia distante anni luce ma che deve esserci. Estranei, stranieri, emarginati da tutto o quasi tutti.
Posso essere loro padre ma l’idea non ci sfiora perché viaggiamo oltre le barriere spazio/tempo, tra le nuvole. Da tre anni vivono insieme e fanno sesso. Insieme, separati, maschi e femmine, oltre le falsità, il possesso, la gelosia. E questo non scalfìsce d’un millimetro la certezza di aver trovato persone pure e limpide come tutti dovremmo essere. Come dovrei essere. Trasudavano amore.
Si è fatto buio. Dobbiamo lasciarci. Il destino ci ha fatto incontrare, a lui la scelta del rivederci. Ci abbracciamo. Le ragazze vogliono la mia bocca e mi stringono a loro. I corpi aderiscono fondendosi per crearne uno solo. Le lingue si cercano e si trovano avvinghiandosi in un bacio infinito che mi rapisce. Tocca ai ragazzi e mi ritraggo. Lo voglio, ne sono attratto ma mi spaventa. Maledette sovrastrutture. Mi accarezzano per consolarmi.
No. La falsità non può vincere. Il sesso non c’entra nulla; è amore. Allora li abbraccio e bacio i ragazzi come le ragazze avevano fatto con me. E le sensazioni di intensa soddisfazione e beatitudine sono le stesse. Ci rotoliamo nell’erba umida giocando come cuccioli. Poi ci salutiamo baciandoci e stringendoci ancora, commossi. Non so se li rivedrò ancora ma ho la certezza di aver incontrato l’umanità del futuro. E a noi ci resta questo odioso presente. E le nostre ipocrisie.

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GIORGIO LAIKA VANNI

Ho iniziato a scrivere a 15 anni le cronache dei concerti del Grande Rock che passava per Roma. Né critiche né recensioni ma la trasmissione delle emozioni sull'onda della musica, specie il progressive. Ci presi gusto e tra lunghe pause, crisi, sopravvivenza e altro pubblicai il mio primo romanzo nel '98, "Oltre la nostra frontiera" da cui trassi uno spettacolo teatrale che ha girato un po' tra Roma, Napoli e l'Italia centrale. Poi venne "L'uomo che ritorna" e il copione teatrale "Damnatio memoriae" centrato sulla storia di Celestino V. Ammiro gli autori visionari come Orwell e Huxley, non mi so vendere, mi sento spesso un pesce fuori dall'acqua ma studio "cinismo" e "sarcasmo" da anni, purtroppo con scarsissimi risultati. Collaboro con LRì da agosto 2017 che ringrazio per la visibilità che mi concede e cerco di ripagarla con le mie "visioni", criticabili quanto si vuole ma quasi sempre fuori dal coro e non scontate.

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