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Regionali del 31 maggio. Prime valutazioni

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Primissime riflessioni sul voto regionale del 31 maggio 2015.

 

1) Il calo del numero dei votanti. Non condivido l’enfasi, le grida di sorpresa e di allarme che accomunano conduttori e partecipanti nei talk show televisivi, ai quali si aggiungono molti pensosi commentatori della carta stampata. La diminuzione rispetto al 2010 è stata all’incirca del 10%. Non poco, d’accordo; ma le elezioni regionali di domenica scorsa non sono paragonabili a quelle che le hanno precedute. Per nove volte, dal 1970 al 2010, negli anni che finivano con lo zero o con il cinque, sono stati chiamati alle urne, tutti insieme, gli elettori delle regioni a statuto ordinario. Era la consultazione elettorale che, per carattere ed ampiezza, si avvicinava di più a quelle politiche generali. Solo nelle ultimissime edizioni non ci sono stati Abruzzo e/o Molise interessate da scioglimenti anticipati; una assenza poco rilevante quanto a consistenza complessiva dell’elettorato. Questa volta, invece, sono arrivate alla scadenza “normale” solo una minoranza delle regioni, esattamente 7 su 15. Le altre otto (oltre ad Abruzzo e Molise, la Basilicata e la Calabria e poi, Piemonte, Lombardia, Emilia e Romagna, Lazio con un numero di abitanti molto alto) non hanno retto alla bufera giudiziaria e istituzionale che ha investito l’ente regione nell’ultimo lustro e sono state costrette a scioglimenti con relative elezioni anticipate. Di conseguenza gli elettori chiamati alle urne sono stati meno della metà rispetto al totale che si registrava nelle precedenti consultazioni dello stesso tipo. Non è così sorprendente e inaudito, in queste condizioni, che rispetto ai votanti del 2010 uno su sei sia restato a casa.

 

2) La precarietà e labilità dell’offerta politica ed elettorale. Tutti gli osservatori hanno fatto notare prima del voto che gli schieramenti maggiori, di centrodestra e centrosinistra, e gli stessi partiti che ne fanno parte soffrono di forti tensioni quando non di vere e proprie lacerazioni; tanto che la dislocazione delle forze in campo è risultata diversa da regione a regione. Ne è derivato un lungo elenco di interrogativi ai quali i risultati avrebbero dovuto dare risposta: quale sarà il partito più consistente a destra e quali potranno essere – di conseguenza – le possibilità e i caratteri di un eventuale processo di unificazione; come si definiranno i rapporti fra il PD e le “sinistre antagoniste” e, all’interno del PD, fra la maggioranza del segretario-premier e le minoranze che lo combattono senza esclusione di colpi; quale risulterà la consistenza degli agglomerati “moderati” a cominciare dal “Nuovo centro destra”; e altri quesiti del genere. A causa della varietà stessa delle situazioni fra regione e regione i dati non autorizzano conclusioni univoche, sia sul versante di destra sia su quello di sinistra; è quindi prevedibile – ne abbiamo avuto assaggi nelle maratone televisive – che le discussioni e le polemiche continueranno e, anzi, si intensificheranno. Una sola cosa, infatti, non sembra contestabile: che le divisioni rendono più difficile la vittoria di uno schieramento mentre l’unità la agevola, una constatazione lapalissiana. Si può aggiungere che un simile stato di fluida confusione offre giustificazioni ulteriori a chi ha pensato di saltare questa mano in attesa che i giochi si chiariscano. Una parte almeno di coloro che non sono andati a votare questa volta, probabilmente non hanno voluto manifestare solo e tanto il proprio distacco (per non dir peggio) dalla politica, ma si sono collocati in orbita di parcheggio confidando per il futuro su offerte più attraenti e – soprattutto – più chiare.

 

3) L’importanza delle leadership. Sono moltissime, e sulle più svariate tonalità, le denunce e le lamentazioni sullo stato deprimente, sfilacciato, comatoso in cui versano i partiti; stato che risulta in modo evidentissimo quando lo sguardo si volge dal centro romano a quelle che vengono definite “periferie”. Non c’è alcun dubbio che sia, questo, uno dei problemi più seri ed urgenti da affrontare perché ne dipende la salute e la efficacia della democrazia stessa. Riforma, rinnovamento, rigenerazione dei partiti, dunque. Perfetto. Ma spesso l’auspicio viene formulato con lo sguardo rivolto all’indietro, come se si trattasse di restaurare i partiti del passato, ai quali peraltro si attribuiscono meriti con eccessiva generosità. In tal modo si nasconde un dato di fatto che nel turno elettorale di fine maggio è emerso con evidenza perfino maggiore rispetto a precedenti occasioni: l’importanza della leadership, dei candidati a dirigere la Regione. Nessun esito del voto si spiegherebbe, sia in senso positivo che negativo, senza tener conto della loro personalità, del loro carattere, della loro visibilità. Mi sento, dunque, di concludere su questo punto, così: la innovazione delle organizzazioni politiche, da avviare senza perdere un istante, non può ignorare, deve anzi assumere come essenziale compito la scelta della leadership, attraverso una severa selezione, un solido consenso, il prestigio, la competenza e la notorietà personali. La politica odierna non consente, pena strutturali debolezze, che la forza della leadership trascuri la necessità di permanenti ed efficienti strutture organizzate; ma esclude anche che strutture organizzate, per quanto robuste, possano evitare il compito di individuare, costruire e affermare una leadership.

Qui finisce la prima nota dedicata a questioni che definirei di carattere “sistemico”. Fra pochi giorni ne seguirà un’altra su temi più politici.

 

 

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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