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Renzi, l’accerchiamento non si rompe con la fiducia

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Basterebbe la sorte della legge elettorale a rendere durissima la battaglia. Con il varo dell’Italicum, dopo più di vent’anni dal referendum del 1993, l’Italia uscirebbe per la seconda volta dalla palude della proporzionale nella quale l’ha ricacciata la Corte Costituzionale nel dicembre del 2013. Ma è evidente a tutti che il vero, o il principale, obiettivo è la liquidazione di Renzi: un intruso se non un usurpatore.

All’interno del PD l’uso dell’Italicum per alzare il tono della polemica e per appesantire l’attacco, non è più solo della minoranza di provenienza Pci; a Bersani e ai suoi si affianca la sortita congiunta Prodi-Letta. Poi ci sono le opposizioni esterne – da FI alla Lega, da Sel ai grillini – chiuse in un astioso aventinismo; oltre alle malmostosità molto diffuse nell’establishment.

In una situazione del genere, di duro accerchiamento, è comprensibile che il Presidente del Consiglio usi tutte le armi a sua disposizione per non soccombere; non escludendo il ricorso alla fiducia. Prospettare questa eventualità fa comprendere il significato politico generale dello scontro. Metterla in atto, però, è diverso dal prospettarla.

Nel gioco degli scacchi si presentano, talvolta, quelle che vengono definite “mosse forzate”; indotte, cioè, da una pressante iniziativa avversaria. Queste mosse consentono di ottenere un risultato immediato, ma indeboliscono la posizione complessiva e vengono pagate nello sviluppo successivo del gioco. La scelta di porre la fiducia presenta le caratteristiche della “mossa forzata”.

Io non concederei agli avversari il vantaggio dell’apposizione della fiducia, la mossa forzata alla quale evidentemente tutti loro mirano; perché otterrebbero così, un offuscamento della leadership, il massimo risultato che possono oggi raggiungere.

Non è affatto certo che nei voti segreti ci sarebbero meno consensi che nel voto palese della fiducia. Dire che la fiducia non andrebbe messa perché non ce n’è bisogno non è, però, un argomento rilevante, perché in sostanza nega il problema. Immaginiamo, invece, lo scenario nel caso ci sia un voto che blocca l’approvazione dell’Italicum. Cosa potrebbe succedere?

Per un governo con un leader diverso da Renzi, nel Parlamento attuale non ci sono le condizioni. Le possibilità concrete a disposizione del Presidente della Repubblica sarebbero due: il rinvio di Renzi alle Camere per verificare se c’è una maggioranza che approvi subito e prima di ogni altra cosa l’Italicum, nel testo voluto dal governo; o lo scioglimento e le elezioni. Ambedue queste ipotesi non sono gradite ai nemici di Renzi interni ed esterni al PD; darebbero invece a lui un vantaggio e una forza che peserebbero, io credo, anche in caso di elezioni.

Conclusione: la scelta migliore per Renzi è dichiarare nel modo più solenne e impegnativo davanti alla Camera dei Deputati che al primo voto che modifica il testo della legge e ne rinvia la approvazione finale il Presidente del consiglio rassegnerà le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato. Ma senza porre formalmente la fiducia. I nemici sarebbero, così, obbligati a mostrare le carte e ad assumere la responsabilità dei loro atti.

Ha scritto Barbara Flammeri su IlSole24ore del 22 aprile che Renzi sa bene di essere lui l’obiettivo e, per questo, chiederà la fiducia sicuro che nessuno vuole le elezioni. Mi sembra un ragionamento contraddittorio. Se nessuno vuole le elezioni che bisogno ha Renzi di porre la fiducia? Basta dire che se la legge elettorale non è approvata in via definitiva dalla Camera, ci saranno le dimissioni del Governo. Agli altri la risposta.

 

Immagine ripresa da Formiche.it

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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