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Ricordo di un alieno

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Sto per raggiungere l’età di mio padre quando è morto. E’ morto giovane, si diceva allora. A sessantatre anni un uomo era giovane, non c’è che dire, anche nel 1969. Quando non tutti superavano il traguardo degli ottanta, gli uomini in particolare, reduci da un ‘infanzia con poche vitamine e da una gioventù sacrificata alla guerra.
Ma mio padre non era come tutti gli altri. Mentre i padri giovani dei miei amichetti si lanciavano nel boom economico, nuotavano in un mondo nuovo di zecca, affascinante e tentatore, dove si lavorava sodo ma il compromesso era sempre dietro l’angolo e dove, firmando cambiali, ti compravi il futuro, lui era diverso.
Gli altri, i padri trentenni, volevano regalare ai figli la televisione, il frigo, la seicento, la millecinque, la Giulia. Entravano in quei saloni – concessionari si chiamavano – tutti luce al neon, marmo e vetro, e lasciavano sulla scrivania di un giovanotto in giacca e cravatta, pettinato con la riga, un pacco di carte. Poi, uscivano felici nel sole, alla guida di una macchina fiammante su cui scarrozzare finalmente la famigliola, magari a Ostia, o a Santa Marinella, dove c’era una casa al mare appena costruita, ad aspettarli.

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Lui, mio padre, non ha mai avuto neanche la patente. Sapeva guidare i treni però. Era diventato ingegnere a ventidue anni, e aveva sacrificato la sua vita: alla famiglia e alle ferrovie. Una moglie sposata quasi bambina e tutti i figli che il Cielo gli aveva mandato. Mio padre credeva in Dio, ciecamente. Alla fine i figli erano stati sei e andava bene così. In quarant’anni di lavoro credo abbia accumulato mesi e mesi di ferie non godute. Non poteva permettersele, lui. Ma su una cosa avreste potuto giurare: alla famiglia non sarebbe mancato mai niente di indispensabile.
Trieste, Sulmona, Firenze, Roma. Tappe della carriera di un ingegnere delle Ferrovie. Cosa faceva mio padre le sere d’inverno, a Sulmona, a Firenze? Forse ascoltava la radio, forse faceva una passeggiata, da solo. Spalle curve, cappotto e cappello scuri, sciarpa marrone, perché era freddoloso. Di sicuro andava a letto presto, come De Niro in “C’era una volta in America”. D’altra parte, quasi all’alba, non poteva mancare la prima messa del mattino, prima del lavoro. Ogni santo giorno.
Scrivere queste cose ha dell’incredibile, per me. La mia vita è stata molto diversa, sempre in bilico tra gli insegnamenti lontani di un uomo che per tutti non era un uomo ma un alieno. E la realtà del mondo, che parlava un’altra lingua. Una lingua che dovevi imparare a tutti i costi, per non soccombere.
Non ce l’ho fatta, babbo mio. Non so nemmeno se era giusto che ce la facessi, a essere come te.
So solo che mi manchi.

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