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Pensieri Letterari

Alice Munro, finalmente

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Paesaggi infiniti e gelidi. Scrittura secca e cristallina. Racconti costruiti con l’essenza della vita, ma senza speranza. O forse sì, invece? “Le pareva adesso di avere i piedi a un’enorme distanza dal corpo. Le ginocchia, dentro quei pantaloni sconosciuti e fruscianti, pesavano come macigni. Si sentiva trascinata verso terra come un cavallo abbattuto che non si rialzerà mai più”. E’ un pezzo del racconto In Fuga, dall’omonima raccolta. Separazioni, coraggio, traumi, dolori. Coraggio, sì, ce ne vuole molto.
Finalmente hanno dato il premio Nobel per la Letteratura a Alice Munro. Scrittrice di soli racconti, genere arduo e poco popolare, che la scrittrice canadese ha portato a un culmine tutto particolare.
Nelle sue opere la quotidianità appare e si spezza, in lampi.
Ecco il finale di Salvate il mietitore, dalla raccolta Il Sogno di mia madre: “Non quella sera, ma l’indomani, Eve si sarebbe coricata in una casa vuota – le pareti di legno come un guscio di carta, intorno – e avrebbe desiderato di farsi leggera, priva di importanza, con dentro la testa soltanto il fruscio del granturco altissimo che poteva forse aver cessato di crescere, ma che al buio faceva ancora tanto rumore”.
Ho letto tutti i suoi racconti, quando mi ero appena ammalata, e non potevo fare altro che stare sdraiata e leggere. E il fruscio che al buio faceva tanto rumore mi risuonava davvero nella testa. Si chiama acufene, e con l’iperacusia catastrofica era, è, la conseguenza dell’infarto cocleare che mi aveva colpita, e mi teneva sdraiata, a non poter fare altro che leggere. Eppure, leggere Alice Munro mi ha dato la forza di levarmi dal divano, imbracciare penna e tastiera e scrivere un paio di libri – sì di racconti, certo. Le sue pagine spietate, le ragazze delicate e geniali, le donne rese implacabili dalle esperienze, lo stile senza sbavature mi hanno ridato forza e speranza.
Alice Munro spiega, a me e a tutti noi, che vivere si può, si deve, senza fermarsi a piagnucolare.
Basta tenersi attaccati all’essenza – che non si sa cosa sia, ma per certo si sente che esiste e arriva come una lama in fondo al cuore e dentro al cervello.

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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