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Andreotti nei particolari

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La prima volta che ho passato un po’ di tempo con lui è stato nel settembre 1985. Era ministro degli esteri; io e Giorgio la Malfa lo accompagnammo alla assemblea Generale dell’ONU. Alcuni incontri erano – ovviamente – riservati al governo. Per il resto, il suo rispetto verso la “collegialità” della “Delegazione del Parlamento italiano” era esemplare. Forme? Certo, forme; ma contano!
Di quella settimana mi resta chiarissimo il ricordo di un pranzo vivace, anche allegro in un ristorante sotto il ponte di Brooklyn. Il proprietario era un italoamericano e la conversazione scivolò naturalmente sugli italiani d’America. Per almeno un quarto d’ora Andreotti snocciolò parentele, matrimoni, amicizie e inimicizie, chiese informazioni su decine di persone dei più diversi angoli degli States , con una precisione impressionante. Le conoscenze e la memoria di quell’uomo mi sembrarono senza limiti, pilastri essenziali del suo “potere”. Come la sua prudente malizia: “certo, non è uno stinco di santo” lasciava cadere quando risuonava un nome da gotha della mafia.
Uno dei diplomatici italiani presenti, pensò di sollecitarlo su certe forniture di armi alla Giordania. Si sentì rispondere, con gelida cortesia: “L’ho detto anche a Shultz (il Segretario di stato che aveva incontrato il giorno prima). Gli americani, del Medio Oriente non capiscono un accidente”.
Negli ultimi anni l’ho incrociato nella Consulta filatelica, un organismo che dà pareri sulle nuove emissioni delle Poste Italiane. La mia sorpresa fu grande, e lo cercai per sapere a quale titolo facesse parte di quel consesso. “Non sapevo che fossi un filatelico!” gli dissi. “Non proprio – precisò – ma mi sono appassionato perché una mia zia mi lasciò molte lettere con affrancature pontificie del 1870, l’anno di porta Pia. Mi sono dato da fare per averne una per ogni giorno di quell’anno, l’ultimo di quello Stato”. “Una per ogni giorno?” chiesi incredulo. “Sì, una per ogni giorno; anche per il 20 settembre. Ma il timbro non è di Roma, è di Civitavecchia”. “Dovessi mai imbattermi in quel timbro, te lo farò sapere subito”. Ci salutammo; è stata l’ultima volta che abbiamo parlato.
Di lui si è detto e si dirà ancora di tutto, e il contrario di tutto. Su un punto le testimonianze saranno, però, univoche: se gli scrivevi, potevi stare certo di ricevere nelle successive quarantotto ore la risposta, rigorosamente autografa. Un particolare? Sì, un particolare; che tuttavia dice molto.

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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