Anton Cechov, un medico di campagna

Il primo amore adolescente è memorabile, segnato dal destino. Ho incontrato il mio per caso ad una fiera, su una bancarella. Attrasse la mia attenzione una suggestiva copertina a colori, con l’immagine di una giovane donna in pelliccia e, in lontananza, le guglie a cipolla di una chiesa ortodossa. Non conoscevo il nome dell’autore, ma il titolo era fiabesco, e avevo da poco smesso di leggere favole. “Il fiammifero svedese”, un tascabile Bur, non era una fiaba, ma il racconto di un caso di omicidio senza cadavere, con finale comico. Fui sorpresa e incantata dall’ignoto affabulatore russo, e ad ogni festa di compleanno chiedevo un altro suo tascabile in regalo. Ero troppo giovane per ambire a un’intera raccolta dei suoi racconti, che neppure sapevo esistesse.
Anton Cechov mi ha aperto la mente sull’immensa steppa russa, sul suo popolo chiassoso e ubriaco, il mondo adulto del realismo. Non era verboso come certi autori che dovevo studiare a scuola. Era immediato, i personaggi uscivano dalle righe vivi e impetuosi. Potevo leggere i suoi brevi racconti in pochi minuti, godermi subito il finale a sorpresa. Quando quelle pubblicazioni periodiche non si trovarono più, mi stavo già preparando a uscire nel vasto mondo dell’università e del lavoro, e Cechov rimase a prender polvere in soffitta.
Anni dopo trovai un’edizione rilegata di 240 racconti e la comprai. Mi ha seguito in tutti i miei traslochi. Ho letto poi le sue opere teatrali, le lettere scherzose ai parenti, alle sue donne, e “L’isola di Sachalin”, resoconto di viaggio nella Siberia delle colonie penali zariste. Questa avventura/reportage tra neve e ghiaccio descrive l’impercorribile tundra fin nelle più estreme regioni dell’impero (Sachalin è 190 km a nord del Giappone), e documenta le terribili condizioni sanitarie dei detenuti nei campi di lavoro forzato.
I racconti di Cechov, scritti a fine Ottocento, sono istantanee di vita reale. Cechov era un medico e scrisse molti racconti di medici, ma non si sospetta mai che possano essere autobiografici, tanto il narratore è invisibile. Sono storie senza trama, non hanno lieto fine, né l’intento morale o pedagogico degli scrittori ottocenteschi. Cechov non si sentiva obbligato, come molti suoi contemporanei vittoriani e russi, a dare un’interpretazione. Il lettore era libero di interpretare da sé.
I personaggi di Cechov non sono descritti, li deduci da dettagli esterni, e soprattutto dai dialoghi. Il teatro era il medium perfetto per lui, che aveva orecchio nel rendere le conversazioni di popolani e borghesi. Li incontrava a migliaia nelle sue visite ambulatoriali. Il medico osservava i suoi clienti e ne leggeva l’indole, oltre alle malattie. Lo stile laconico, velatamente ironico, mi ha sempre attratto. I suoi personaggi innocenti, attraverso l’esperienza della vita, perdevano l’innocenza. Avevo bisogno dello sguardo disincantato del medico che ha visto di tutto, che ci svezza dalle favole che ci raccontiamo. Lo stile asciutto di Cechov mi ricorda Primo Levi, la sua sintassi breve e all’osso nel descrivere la più grande tragedia, la capacità di osservazione scientifica derivata dal suo lavoro di chimico.
Cechov scrisse più di seicento racconti, compresi gli sketch comici giovanili. Dall’età di 19 anni, mentre ancora studiava medicina, dovette mantenere da solo la famiglia: un padre dispotico finito in bancarotta, una madre maltrattata, fratelli e nipoti litigiosi, depressi e parassiti. Li mantenne vendendo racconti ai quotidiani, estenuandosi come medico attraverso le campagne russe infestate dal colera. Ospitava in casa parenti squattrinati e chiassosi. Nelle sue lettere si lamentava del rumore costante che gli impediva di concentrarsi a scrivere e lo portava alla disperazione. Cechov scrisse oltre quattromila lettere, in cui accennava alle sanguisughe di casa, o dava consigli letterari ad Aleksandr Cechov, che voleva guadagnarsi da vivere scrivendo come il fratello famoso.
Il padre del racconto moderno così lo consiglia: “Devi scrivere di più, sui cento o duecento racconti all’anno. Questo è il segreto. Veramente hai scritto solo 15 racconti? Di questo passo non imparerai a scrivere fino a che avrai 50 anni. La pratica è essenziale”.
Cechov lo rimprovera di essere pigro e gli detta sei condizioni per creare un’opera d’arte:
“1) Assenza di verbosità prolissa di natura politica-sociale-economica;
2) totale obiettività;
3) descrizioni fedeli di persone e oggetti;
4) brevità estrema;
5) audacia e originalità; evitare stereotipi;
6) compassione”.
Quando Aleksandr vuol cimentarsi col teatro, Cechov è impietoso: “L’opera teatrale sarà insignificante se tutti i personaggi assomigliano a te. Non c’è vita fuori di te? E chi è interessato a conoscere la mia vita o la tua, i miei o i tuoi pensieri? Dai delle persone alle persone, non te stesso”. “Cerca di essere originale, e il più intelligente possibile. Non smussare le cose, non lustrarle, sii goffo e audace. La brevità è sorella del talento… Mamma e babbo devono mangiare. Perciò scrivi”.
Cechov era modesto riguardo al valore dei suoi racconti. Diceva di essere sposato alla medicina. La letteratura era l’amante. “L’artista non deve essere giudice dei suoi personaggi, ma solo un testimone spassionato. Il mio lavoro è solo avere talento, saper distinguere tra affermazioni importanti e irrilevanti, saper illuminare i personaggi e parlare la loro lingua”. Scrisse al suo editore Suvorin: “Non è affare dell’artista risolvere i problemi che richiedono una conoscenza specialistica. Fa male lo scrittore che affronta un argomento che non capisce. Mio compito non è combinare l’arte con un sermone”.
La più grande influenza letteraria per gli scrittori di racconti americani, inglesi e irlandesi del Novecento è stato Cechov. Ha mostrato come liberarsi del racconto convenzionale con trama. Ha ridefinito il racconto come percezione di un singolo momento di tempo, di un singolo incidente. Vent’anni prima che Joyce scrivesse “Gente di Dublino”, i racconti di Cechov erano “epifanie joyciane”, molto simili al concetto di “immagine” modernista di Ezra Pound. Un filo rosso e lungo cent’anni collega Cechov a Raymond Carver e al minimalismo americano.
Cechov preferiva scrivere di fatti ordinari e di persone comuni, nelle piccole città e villaggi in cui praticava come medico. Questi personaggi vogliono crearsi una famiglia, ma temono di esserne imprigionati. Cechov frequentò molte giovani donne, ma non si sposò mai, tranne prima di morire, con l’attrice Olga Knipper. Lei lavorava a teatro nei gelidi inverni di Mosca, e lui cercava di riprendersi dalla tubercolosi nel clima caldo della Crimea. Aveva contratto la malattia da un suo paziente, ma, invece di riposarsi e curarsi, aveva continuato a lavorare fino allo sfinimento per mantenere la famiglia allargata. Non aveva una vita privata, le condizioni domestiche della famiglia di Cechov non lasciavano spazio a una moglie.
Olga e Anton si sposarono di nascosto e, per stare da soli in pace, fecero un viaggio sul Volga e a Jalta, ma il matrimonio si consumò più che altro per corrispondenza. Cechov le scrisse meravigliose lettere d’amore che, decenni dopo, il governo sovietico censurò anche per piccoli dettagli, come la parola “didietro”. Nei suoi racconti e opere teatrali Cechov ha scritto delle donne con più simpatia e comprensione di qualsiasi altro scrittore russo. Quando si aggravò, Olga lo costrinse a entrare in un centro per malattie polmonari a Badenweiler, nella Foresta Nera. Qui, il 2 luglio 1904, Anton morì, a soli 44 anni.
Cechov aveva scelto personaggi ritenuti insignificanti nel panorama letterario di allora, affollato di storie tragiche e personaggi nobili o criminali. Aveva iniziato da giovane con sketch comici, il suo realismo non era drammatico. Era uno sguardo clemente e disincantato. Aveva scritto racconti brevi perché, col chiasso in casa e gli impegni di medico, non aveva energia, tempo o inclinazione a sobbarcarsi un epico romanzo russo. Scrisse però meravigliose novelle d’ampio respiro, come “La steppa”, che non volle appesantire di trame o verità universali, come facevano Tolstoj e Dostoevskij, che pure amo.
“Dio ti protegga dalle generalizzazioni. Evita di descrivere lo stato psicologico dei personaggi, che dovrebbe risultar chiaro dalle loro azioni. Nessuno dovrebbe andare a caccia di un’abbondanza di personaggi. Il centro di gravità dovrebbero essere due: lui e lei”.
“Io non sono un liberale, né un conservatore, un monaco o un indifferente”. “Noi descriviamo la vita com’è e ci fermiamo lì. Non abbiamo politica, non crediamo nella rivoluzione”. “Vorrei essere un artista libero e niente più. Odio la falsità e la violenza”. Amen.

3 commenti su “Anton Cechov, un medico di campagna”

  1. Teresa Trivellin

    Bellissimo, Patrizia. Condivido tutto. Anche l’ accostamento a Primo Levi.
    “Ospitava in casa parenti squattrinati e chiassosi. Nelle sue lettere si lamentava del rumore costante che gli impediva di concentrarsi a scrivere e lo portava alla disperazione.” Ho sempre pensato che anche Pirandello lo avesse in mente quando descrive il povero Bernardino Lamis de “L’eresia Catara”.
    Io ho un debole per Cerviachov, l’impiegato dello starnuto a teatro. Mi sento lui infinite volte quando sento che al rientro a casa mi metterò sul divano, e…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto