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BORRELLI E ROUSSEAU

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Francesco Saverio Borrelli (dal "Corriere della sera")

Tutti o quasi hanno ricordato Francesco Saverio Borrelli, capo del “pool Manipulite” con tre sue parole che, poi, sono una sola ripetuta tre volte: “resistere, resistere, resistere”.

Per capirne meglio il significato e la portata, ho voluto ricongiungerle alla frase in cui compaiono; cosa abbastanza facile perché si tratta di non più di quaranta parole in tutto. Eccola, la frase: “Ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”.

Accidenti! Il breve ma ferreo ragionamento prende le mosse dalla “volontà generale”, così sinteticamente definita nel Dizionario Treccani: “nella teoria politica democratica moderna, concetto basilare, inizialmente elaborato dal pensatore svizzero J.-J. Rousseau (1712-1778), che indica la volontà del corpo politico, considerato come persona pubblica e in cui ciascun membro è parte indivisibile del tutto”. Una volta cioè verificata per via democratica, la “volontà generale” non tollera più riserve; diventa per tutti vera e giusta e tutti devono considerarla tale. Fu la faticosa comprensione di questo vincolo – ai miei occhi incompatibile con ogni forma di pluralismo e minaccioso per le libertà individuali – a indurmi in anni lontani a una dolorosa presa di distanza dal pensiero di Rousseau che pure avevo frequentato e amato.

Sarebbe far torto a Borrelli pensare che abbia usato quell’espressione senza averne ben chiaro lo spessore e le implicazioni; tanto più che ad esaltarne tutta la “pregnanza” roussoviana c’è quel “sgretolamento”; per dire che senza il rispetto, il culto della stessa “volontà generale” questa degrada, si disperde; e si apre, così, la strada ai peggiori guasti e pericoli. Quando questo avviene è in gioco la stessa salus rei publicae; a difesa della quale c’è solo “il senso del diritto, ultimo estremo baluardo della questione morale”.

Pochissime parole saldano in modo indissolubile gli anelli della catena: il “senso del diritto” è l’antidoto allo “sgretolamento” della “volontà generale. Non si può dunque restringerlo al semplice “rispetto della legge” perché in realtà è un estremo baluardo; a difesa di cosa? della giustizia? No, sarebbe troppo poco: a dover essere difesa è la “questione morale” che emana dalla “volontà generale”. Il “senso del diritto”, in sostanza, tiene insieme la “volontà generale” e la “questione morale”; anzi tutela l’una e l’altra. Chiarito questo è piuttosto semplice derivare quale sia per Borrelli la funzione, il dovere, la “missione” dei magistrati.

E’ riassunta qui tutta una concezione della società, del potere, della morale e – a seguire – della democrazia, della politica, della giustizia; una visione compatta e dura che riguarda il pensiero dell’intellettuale prima che gli atti del magistrato Borrelli; anche se – come avviene per tutti – non è arbitrario ipotizzare un rapporto fra il primo e i secondi.

Per il rispetto che gli si deve mi sembra giusto riconoscergli la forza e la coerenza delle idee cui si è ispirato. Per farlo basta leggere con attenzione quelle quaranta parole e non limitarsi a ripeterne tre.

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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