Cani di paglia

Andare al mare di domenica è una tortura. Tutta la città e le campagne intorno si svuotano per riversarsi in auto, in tram, in moto e bicicletta, sulla spiaggia. Giovani e anziani fanno ressa in cerca di un parcheggio sul lungomare, di un ombrellone o di una sdraio, sudati e irascibili per l’ondata di calura africana. Corrono a gettarsi nell’acqua calda, gomito a gomito con bambini urlanti e madri isteriche. Io e la mia amica Cassie andiamo a rilassarci al bar del Pasticciere, quasi vuoto. Possiamo scegliere il miglior tavolino all’aperto sotto l’ombra fresca dei tigli, e chiacchierare in pace.
“Giulia, hai visto che avevo ragione?” La guardo senza capire.
“Dicevi che in Europa non ci sarebbe mai stata una sparatoria di massa”.
“E allora?”
“Non segui i notiziari? Leggi i giornali solo quando veniamo qui al bar?”
“Cassie, sono in commissione esami di Stato. Ho appena il tempo di mangiare male e dormire peggio, con questo caldo asfissiante. Scusa se non mi tengo aggiornata e se non leggo le tue riviste inglesi indecifrabili e senza illustrazioni”.
Cassie non raccoglie i miei rimbrotti, intenta solo alle sciagure planetarie. “La sparatoria è avvenuta in una scuola di Gratz, in Austria. Un liceo come quello dove insegni tu. Dieci persone uccise, tutti studenti adolescenti e un’insegnante”.
“Mio Dio! Chi è stato?”
“Un ex-studente di 21 anni, con pistola e fucile da caccia. Pare fosse stato vittima di bullismo in quella scuola”.
“Oddio… Lo hanno preso?”
“No, si è suicidato nei bagni del liceo, quando sono intervenute le forze speciali. Ci sono anche dei feriti in ospedale”.
Arriva il cameriere a prendere l’ordinazione, pieno di attenzioni per Cassie. Quando se ne va, le dico sottovoce: “Hai notato che il Marinaio si rivolge solo a te?” Lo abbiamo soprannominato così perché è muscoloso e abbronzato come un guardaspiaggia. Cassie scrolla le spalle, non si degna di rispondermi.
“Eppure sono io la bionda nordica. Perché non prende mai l’ordinazione da me?”
“Perché tu hai l’aria da sposata”, risponde tranquilla. Fingo di non aver sentito. Cassie ha superato i trent’anni, ma sembra l’eterna ventenne. Io invece ho qualche anno di più e sono sposata, ma è come se fossi vedova. Cambio discorso.
“C’era stato un episodio di bullismo, anni fa, in una scuola della nostra provincia. La vittima era una ragazzina, ma le ragazze non si vendicano coi fucili. Ti ricordi, Cassie? Era al primo anno delle superiori, presa di mira dai compagni, che per mesi la dileggiarono sui social”.
“Quella che si è suicidata?”
“Sì. Gli studenti delle mie classi erano così sconvolti che per giorni non sono riuscita a far lezione. Parlavano solo di lei, e dei compagni che l’avevano bullizzata”.
“In questi casi non è meglio sospendere le lezioni e parlare di bullismo?”
“Io l’ho fatto, ma ci sono obiettivi didattici da rispettare. Quando hai dedicato un’ora a farli sfogare, poi non li controlli più”.
“Quindi gli obiettivi didattici sono più importanti dei traumi degli alunni?”
“Cassie, un’insegnante deve insegnare la sua materia. Nelle poche ore che ho nelle classi, non posso fare anche da psicologa e da madre”.
Arriva il Marinaio col vassoio e deposita davanti a Cassie un cappuccino fumante e una enorme brioche alla crema che gronda glicemia. Poi si rivolge a me con un bicchiere di spremuta mezzo vuoto: “A lei, signora”. Appena si allontana, Cassie a malapena trattiene il riso.
“Cos’hai da ridere? Non sono forse una signora? Guarda che ti rubo la brioche!”
Cassie sposta il piatto fuori dalla mia portata. Posa la sua rivista patinata, a righe così fitte da farti perdere le diottrie, e addenta la brioche. È un’ingiustizia che certe persone possano abbuffarsi senza ingrassare. Cassie non legge più, mi guarda. “Quando ti ho riferito la notizia della scuola austriaca, sei impallidita”.
“La mia è diventata una professione rischiosa. Vivo con la paura che tra tante facce innocenti si nasconda la mela marcia. Devo stare all’erta, come un detective”.
“Scommetto che hai avuto anche tu qualche caso di bullismo a scuola”.
“Un giorno stavo interrogando uno studente alla cattedra e ho visto con la coda dell’occhio una ragazza che si era spostata nel banco vuoto dell’interrogato e pugnalava con furia la sua antologia di italiano. Le ho subito chiesto di consegnarmi il pugnale, che aveva una lama lunga da far paura. Lei ha detto che non era suo, lo ha passato furtivamente a un compagno che è uscito di corsa dall’aula per farlo sparire. Ho chiamato il bidello perché lo inseguisse”.
“Non potevi rincorrerlo tu?”
“Cassie, l’insegnante è legalmente responsabile di quel che succede nell’aula. Non posso lasciarla finché non suona la campanella di fine ora. Anche durante gli intervalli siamo tenuti a vigilare”.
“E allora non hai fatto niente?”
“Ho torchiato la ragazza: ‘Perché hai rovinato il libro di Luca?’ ‘Per vedere se il pugnale era affilato abbastanza’, mi ha risposto con un sorriso da impunita. Luca era sbiancato in volto alla vista dello scempio sulla sua antologia, ma non ha parlato. Non ho potuto far altro che andare dal preside, che ha indetto un consiglio di classe per il pomeriggio e mi ha ordinato di preparare una relazione scritta”.
“Hai ottenuto giustizia?”
“Ho perso un giorno intero. Il consiglio di classe non ha mosso un dito, hanno letto la mia relazione e hanno deciso di ‘vigilare’. Il pugnale non era stato trovato, ma il libro squartato di Luca era pur sempre una prova. Nessun richiamo per i due studenti, dato che il padre del ragazzo col pugnale minacciava denunce ai prof ogni volta che veniva ai colloqui genitori-insegnanti. Un collega mi ha avvicinato dopo il consiglio e mi ha detto sottovoce che non dovevo sollevare un polverone per ogni nonnulla, che lui non aveva tempo da perdere coi consigli pomeridiani”.
“E Luca? Non si è lamentato per il libro distrutto? Suo padre non è venuto a protestare dal preside?”
“No. Un giorno che i due manigoldi non erano in classe, gli ho chiesto perché suo padre non avesse denunciato l’aggressione. La classe è ammutolita. Guardavano tutti Luca, che ha scosso la testa: ‘Non ho detto niente a mio padre’. Allora ho capito che il libro pugnalato era un atto intimidatorio, non uno scherzo goliardico. ‘Luca, se non ti fai valere, le minacce continueranno’.”
“E lui?”
“Si è messo a piangere. Ha chinato la testa sul suo banco e ha nascosto il viso tra le braccia. Mi sono indignata, ho chiesto agli alunni di dirmi la verità. Una ragazza, con voce fioca, ha rivelato che gli atti di bullismo contro Luca andavano avanti da mesi, e nessuno parlava per paura. Un ragazzo si è alzato gridando: ‘Tanto voi prof non fate niente. Lasciate spadroneggiare i violenti’.”
“Che accusa terribile! E tu che hai fatto? Un’altra relazione scritta e un altro inutile consiglio di colleghi menefreghisti?”
“No, i colleghi, che non si erano accorti della gravità dei soprusi, hanno deciso di sospendere i due bulli. Il preside ha convocato i loro genitori, insieme al padre di Luca”.
“Cosa avete ottenuto? Tante scuse o una denuncia?”
“È stato il padre di Luca a minacciare la denuncia. Per fortuna eravamo a fine anno scolastico. Passata l’estate, ho scoperto che Luca si era iscritto ad un altro istituto, mentre i due bulli erano ancora nella mia classe, all’apparenza remissivi”.
“Ah, Giulia, voi insegnanti siete cani di paglia. Anche se abbaiate, non fate paura a nessuno. E quando non vi rispettano né alunni né genitori, la scuola va a ramengo”.
“Tu mi rincuori sempre, Cassandra”.

2 commenti su “Cani di paglia”

  1. Valeria Frescura

    Mi è molto piaciuto, non solo ritrovare Cassie e Claudia, ma il modo preciso e realistico con cui affronti la condizione infelice degli insegnanti, troppo spesso ridotti all’impotenza dei cani di paglia. Bravissima!

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