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Casa Savastano a Gomorra

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casa Savastano

Fotogramma tratto dalla serie Gomorra.

 I momenti più alti della serie Gomorra si svolgono a casa Savastano. Non tanto per quello che si dice, ma per quello che si vede. È di gran lunga la più brutta casa che si possa vedere al mondo. Nemmeno in un incubo Aiazzone o Mondo Convenienza si potrebbe raggiungere quell’apice di burinaggine senza rimedio: un immenso quadro che rappresenta una tigre ringhiante si accompagna allo schermo ultrapiatto grande come un campetto di calcio incastonato in una cornice dorata. E queste sono le pareti. Le poltrone sono in un materiale plastico con fregi dorati dove giocoforza la seduta è sudata. Qualsiasi altro oggetto, dai tavoli, ai divani, alla tazza del cesso, si contraddistingue per sembrare qualcos’altro e per essere fatto di un materiale inesistente in natura. Scenografo e arredatore meriterebbero il premio Oscar, se non fosse la vera casa di un boss, ora sotto sequestro e al centro di svariate polemiche. Così come tutta la serie. Si imputa a sceneggiatori, regista, produttori di essere troppo veri, di non avere uno sguardo critico, di esaltare la vita dei boss camorristici. Ma quale vita? Il bel Ciro passa il tempo a sparacchiare all’impazzata; lo sfigato Genny viene spedito da mammà a mozzare teste col machete per irrobustirsi, neanche fosse una cura di vitamine; il babbo Don Pietro, dopo l’esaltante esperienza di aver fomentato una rivolta in carcere, si è beccato il 41bis e ora prega e mangia in solitudine; il perfido e inquietante Conte, si impone ogni anno di rinunciare a una cosa a cui tiene molto, per dimostrarsi di essere un duro (e un monastero in Tibet, no?). Tutti destinati a una vita breve e orribile, la cui sola soddisfazione è di essere gli incontrastati padroni di luoghi di agghiacciante bruttezza e degrado. L’unica possibilità di riscatto è scalare il vertice del clan, così invece di sparacchiare di persona ci mandi qualcun altro e ti senti figo, hai il potere, il rispetto, che nell’accezione camorristica è solo paura e adulazione.
E dopo che hai testato la fedeltà del tuo sottoposto facendogli bere un flute con la tua pipì vai a dormire sereno? Io mi sentirei un idiota, ma evidentemente non sono fatta per fare il boss. Oltre alle prove di cattiveria, rimane poco altro: donne (poverine assai brutte anche quelle, persino le cubiste hanno la cellulite), arredi, gioielli, vestiti, automobili, motociclette, il tutto cafonissimo, come estrarre dal giubbetto un rotolo di banconote da 500 euro. Oltre non si va. Non si riesce: manca la cultura basica per godersi la ricchezza. A parte una frittura di pesce o una cantata in coro, divertimenti abbastanza alla portata di tutti, non li vedi sorridere mai. La più grande gioia del rampollo di boss è quella di ordinare nel piazzale davanti al condominio in disfacimento un cantante melodico che canta – una canzone ovviamente brutta – alla sua fidanzatina, che sembra uscita da una puntata di Uomini e Donne. Quindi la morale è: ma con tutti quei soldi sporchi non riesci a fare niente di meglio?
È una domanda che andrebbe girata a tutti i super-ricchi del pianeta, dagli oligarchi, agli emiri, ai manager strapagati, ai plurimiliardari di casa nostra. E non c’è una grande differenza fra casa Savastano e certe dimore che ci vengono esposte nei settimanali illustrati: superattici, ville piscinate, palazzi cielo-terra, gonfi fino all’inagibilità di oggetti inutili che gridano agli ospiti quanto sono costati. Non c’è una sostanziale differenza fra la tigre dei Savastano e il vitello d’oro di Damien Hirst. Venti milioni di dollari o giù di lì. Non c’è una sostanziale differenza fra il salotto Savastano e la tavernetta di Arcore.
Per questo Gomorra mi piace.

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