Le poetesse americane del Novecento (Bishop, Plath, Sexton, Rich, e le più recenti Gluck, Graham e Dove) hanno avuto come modello di poeta donna soltanto Emily Dickinson e Marianne Moore, massima esponente del modernismo americano. Ognuna di loro ha voluto distanziarsi dai temi tradizionali riservati alle donne. Elizabeth Bishop ha rivendicato per sé il tema del viaggio, inteso come esilio, esplorazione, essere senza casa, perdersi.
Nata nel 1911 a Worcester, Massachusetts, Elizabeth rimase orfana di padre appena nata, e sua madre fu internata in manicomio pochi anni dopo. Passò la prima infanzia coi nonni materni in Nova Scotia, e poi con quelli paterni a Worcester, dove fu molestata sessualmente per dieci anni dallo zio. All’università di Vassar fece amicizia con la scrittrice Mary McCarthy e a New York conobbe Marianne Moore, che le fu mentore e amica. Mary McCarthy disse di Elizabeth: “Vorrei aver avuto il suo modo di vedere, che era come una grande lente d’ingrandimento. Ma usarla per guardare normalmente ti danneggia”.
Molti poeti suoi contemporanei si erano distrutti per alcolismo, follia e suicidio. Bishop decise di non cedere alla follia, come aveva fatto sua madre, e cercò invano di controllare il proprio alcolismo fin dai tempi del college. “Ho parecchi amici che sono, sono stati, saranno, fuori di testa; ho visitato manicomi molte volte”. Diventò amica di Robert Lowell, iniziatore della poesia confessionale in voga negli anni ’50-’60 in America. Ebbe con lui una fitta corrispondenza e candidamente gli scrisse: “Deploro il ‘confessionale’, dove tutto è lecito, e sono così stufa di poesie sulle madri e i padri, e sulla propria vita sessuale”.
Octavio Paz ha definito la poesia di Bishop una lezione nell’enorme potere della reticenza. Elizabeth evitava i circoli letterari e pubblicava solo una poesia all’anno. Ne scrisse in tutto poco più di cento. In una poesia, fa dire al Granchio:
“Credo nell’obliquo, l’approccio indiretto, e tengo i miei sentimenti per me.
Il mio guscio è resistente e saldo.
Ammiro la compressione, la leggerezza e l’agilità, tutte cose rare in questo mondo dissoluto”.
Non avendo casa e famiglia a cui poter tornare, Elizabeth viaggiava costantemente. Straniera all’estero e straniera in casa d’altri.
“Il suo viso è chiuso come una noce,
chiuso come una lumaca prudente
o un seme vecchio mille anni”. (da “House Guest”, ospite)
Tre dei suoi libri di poesia hanno nomi geografici: “Nord e Sud”, “Questioni di Viaggio” e “Geografia III”. Bishop evitò sempre espliciti resoconti della sua vita e descrisse con intensità le impressioni del mondo fisico. “La geografia viene per prima nel mio lavoro, e poi gli animali. Ma mi piacciono anche le persone”. La viaggiatrice solitaria scrive di relitti di navi, del naufragio di Robinson Crusoe, e dipinge con nostalgia i paesaggi della Nova Scotia materna.
“Da province anguste
di pesci e pane e tè,
dimore delle lunghe maree
dove la baia lascia il mare
due volte al giorno” (da “The Moose”, l’alce)
Questa lunga poesia narrativa termina con l’animale selvatico, “alto come una chiesa”, incontrato sulla strada dell’autobus in cui viaggia Elizabeth con altri passeggeri. L’alce è descritto come un’apparizione magica:
“Se la prende comoda,
esamina l’autobus,
imponente, ultraterreno.
Perché, perché proviamo
(proviamo tutti) questa dolce
sensazione di gioia?”
L’elemento sorpresa del paesaggio e degli animali, nei viaggi poetici di Bishop, è come un imprevisto antidoto al fatalismo.
Subito dopo l’università, Elizabeth viaggiò estesamente in Europa, poi si stabilì a Key West, Florida, dove comprò casa con la sua compagna Louise Crane. La relazione non durò a lungo, Louise s’innamorò di un’altra. Elizabeth abbandonò la Florida e accettò una commissione per scrivere un libro sul Brasile. A Rio conobbe l’aristocratica e architetta Lota de Macedo Soares e la “permanent tourist” si fermò a vivere con lei per 15 anni, in una casa progettata da Lota sui monti sopra Petropolis. Qui Bishop scrisse molte delle sue meravigliose lettere agli amici lasciati in America, di cui Lota era gelosa, poi accettò brevi incarichi d’insegnamento in università americane per sottrarsi all’atmosfera soffocante e provinciale del Brasile. Lota, depressa e fisicamente sfinita dal lavoro, la seguì a New York, dove si suicidò con 12 pasticche di Valium.
Dopo molto peregrinare da una città e da un’università all’altra, Elizabeth sostituì Robert Lowell nella cattedra di poesia moderna ad Harvard. Diceva alla sua classe che la poesia non si può insegnare, e che poesia è “pensare con le proprie emozioni”. Vinse il premio Pulitzer, due Guggenheim Fellowships e un National Book Award.
“Non chiedere a una poesia cosa significa, lascia che te lo dica lei”.
“A volte ho atteso vent’anni prima di terminare una poesia, eppure un buon poeta non può permettersi di avere fretta”.
“Odio le etichette. Per me è sempre stato più interessante scrivere poesie che pensarmi poeta. La poesia dovrebbe essere il mestiere più inconscio e inconsapevole possibile”.
Dalle sue lettere ad altri poeti: “Non ho mai scritto niente di valore alla scrivania o nella mia stanza – è sempre in casa d’altri, o al bar, o in piedi in cucina nel cuore della notte”. Le sue lettere facevano da collegamento fra l’arte e la sua vita. Affogava nell’alcool il suo essere senza casa, senza famiglia. Esprimeva le sue emozioni di solitudine e abbandono descrivendo paesaggi.
Da “Cape Breton”:
“Qualsiasi significato avesse il paesaggio sembra essere stato abbandonato
a meno che la strada non lo trattenga, all’interno
dove non possiamo vederlo
dove si dice vi siano laghi profondi”.
John Berryman, poeta ed amico, descrisse lo stile di Bishop come “casuale nel tono e nella forma, terribile nel significato”.
In Italia, una collezione di sue poesie, “Miracolo a colazione”, è stata pubblicata nel 2006, e nel 2014 la corrispondenza Elizabeth Bishop/Robert Lowell col titolo “Scrivere lettere è sempre pericoloso”; entrambi da Adelphi. La collezione di poesie non è più disponibile, nonostante Elizabeth venga definita la “Callas della poesia novecentesca”. La raccolta di lettere è ancora disponibile, la sinossi del libro parla di “amore a prima vista – e amore impossibile” tra i due poeti americani.
Elizabeth temeva le crisi di follia che Robert ebbe anche quando andò a trovarla in Brasile. Le profferte di lui erano infatuazioni del momento. Lowell tradiva le mogli e anche l’ultima amante per cui si era trasferito a Londra. Le sue donne finivano per fargli da badante, tra un ricovero psichiatrico e l’altro. Elizabeth temeva l’alcolismo di Lowell e la sua psicosi maniaco-depressiva, ma gli rimase sempre amica, a distanza, però.
Ad Harvard Elizabeth, ormai sessantenne, conobbe la giovane Alice Methfessel, dagli occhi “blue blue blue”, con cui provò a ricostruire una casa, dopo aver perduto quella che aveva comprato a Ouro Prieto, in Brasile. Insieme ad Alice, Elizabeth ricominciò a viaggiare, nonostante la sua salute precaria e i collassi dovuti al bere. Alice resse cinque anni tormentati con Bishop, poi si separò da lei dopo aver incontrato un uomo. Elizabeth le augurò di essere felice e le disse che avrebbe ereditato tutto alla sua morte, anche se non stavano più insieme. Morì di aneurisma cerebrale quattro anni dopo, nel 1979, dopo aver scritto questa poesia per lei:
“L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta lo scompiglio
delle chiavi perdute, dell’ora sprecata.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Pratica la perdita ancor di più, perdi in fretta:
luoghi, e nomi, e dove intendevi viaggiare.
Nessuno di questi causerà disastri.
Ho perduto l’orologio di mia madre.
E guarda! L’ultima, o la penultima
delle mie tre amate case.
Ho perso due città, adorate.
E, ancor di più, ho perso alcuni reami che possedevo, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è stato un disastro.
Anche perdere te (la voce scherzosa, un gesto
che ho amato) non mentirò. È evidente,
l’arte di perdere non è troppo difficile da imparare,
anche se potrà sembrare (scrivilo!) un disastro”.
Le traduzioni sono di Patrizia Tenda
imparo sempre da te, Patrizia Tenda! Grazie!
Alla fine, una poesia terribile, vera. Tradotta con limpida potenza. Il cuore si stringe all’ingresso delle parole, che scendono implacabili
anch’io ha perduto l’orologio di mia madre, e tre case… Bishop mi spezza il cuore, mi canta nell’anima
ho perso una città e due paesi… non abito più in me
Bellissimi: La poesia “è pensare con le proprie emozioni” e “Non chiedere a una poesia cosa significa, lascia che te lo dica lei”….
Grazie Patrizia