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Società

Gli U2 a Roma

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Foto di Marta Coratella

Dove stiamo andando? Dove siamo? Se a Roma, come in tutta Europa centinaia di migliaia di persone si sono raccolte nei templi dello sport e della musica in questo luglio assorto, svagato, per gridare “But I still haven’t found what I’m looking for…” insieme a quattro ex giovanotti che infiammano cuori in giro per il mondo da più di trent’anni e che si fanno chiamare U2, un motivo ci sarà.
Certo, la band di Bono Vox è una delle più coinvolgenti della storia del rock. Certo, le canzoni dei nostri amici irlandesi fanno vibrare sangue e anima. Certo, la fiducia nel potere sciamanico della musica è una delle poche cose che ancora resiste all’usura del tempo.
Ma non può essere solo questo.
E’ che nel catino ribollente dell’Olimpico di Roma, per parlare di cose che conosciamo più da vicino, urlando disperatamente si esorcizzava l’assenza.
L’assenza di qualcosa che le generazioni del dopoguerra hanno creduto fortemente non solo che esistesse, ma che avrebbe cambiato il mondo. Avrebbe vinto. E che invece nelle strade devastate di Mosul e Damasco, nei barconi colati a picco del Mediterraneo, nel silenzio allucinante del Duomo di Ratisbona, sta perdendo. L’amore, la solidarietà, la voglia stessa di vivere lottando per raddrizzare torti e ingiustizie, fiaccole orgogliosamente impugnate e brandite per tanto tempo stanno, lentamente ma inesorabilmente, scivolando da dita ormai prive di forza vitale.
La generazione del sessantotto e del martirio dei Kennedy e di Luther King, quella successiva di Woodstock e quelle ancora dopo delle stragi impunite e del sacrificio di Moro, di Falcone, Borsellino e tanti altri, una lista infinita, quella che ha visto il sangue scorrere nelle strade di Sarajevo, Kiev, Tel Aviv, Teheran, Parigi, Londra, Berlino, Istanbul, Il Cairo, Pechino, sui corpi dei bambini e di troppe donne violate e uccise, distoglie lo sguardo e assiste muta allo spettacolo orrendo che va in scena fuori dalle mura del tempio dove è confinata, costretta a sfogare nei concerti rock la sua impotenza.
Essere italiani conferisce alla percezione di questo vuoto abissale un alone di pessimismo in più, me ne rendo conto. La sensazione che l’assenza, percepita in modo così violento da lasciare attoniti, sconvolti, riguardi il nostro popolo più di tanti altri è strisciante ma netta, angosciosa.
Speriamo di sbagliarci. Che Roma, passata la tremenda nottata in corso, ci regali un altro, più importante segnale di rinascita, capace di oltrepassare gli spalti dello stadio Olimpico e di librarsi in volo insieme alle migliaia e migliaia gabbiani che la presidiano stabilmente. Simboli, in un tempo antico e ormai dimenticato, di pace e libertà, oggi solo di spazzatura immonda.

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