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Ho una ragionevole paura

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Avevo annunciato considerazioni più meditate dopo le prime riflessioni sul voto regionale del 31 maggio. Eccole:

a – per il PD il problema politico essenziale è non cadere vittima della “sindrome Lafontaine”. Oskar Lafontaine, già Presidente della SPD e candidato alla Cancelleria della RFT, nel 2005 ruppe con il suo partito e costituì un raggruppamento di sinistra “antagonistica”. Da quel momento l’alternanza fra CDU-CSU e SPD è uscita dal novero delle cose possibili; oggi, nella RFT, sono concretamente praticabili solo una maggioranza di centro-destra (CDU-CSU con l’appendice liberale) o la “grosse Koalition” che obbliga a governare insieme CDU-CSU e SPD. I numeri per alternative di governo socialdemocratiche come quella di Brandt e di Schroeder non sono più raggiungibili. Si verificherà una rottura analoga anche in Italia? La questione, evidentemente cruciale, esisteva anche prima del voto, che l’ha confermata e – anzi – appesantita

b – un sistema informativo ormai drogato e autoreferenziale ha enfatizzato il “successo” della Lega al punto da far dimenticare che lo si è misurato a confronto con la pessima performance delle residue truppe berlusconiane. Il voto popolare espresso (e lo stesso si può ipotizzare per quello “in parcheggio”) ha mostrato comunque che a destra c’è un elettorato paragonabile per consistenza a quello di centro-sinistra. Gli elettori per una alternativa competitiva a destra ci sono, con buona pace di tanti pensosi analisti costernati perché non vedevano chi potesse contrastare Renzi; manca, però, chi abbia la capacità di raccoglierli e motivarli. Non ci riuscirà certo Salvini con le sue smargiassate; e il compito è superiore alle forze attuali di Berlusconi. Per ora, da quella parte, non è in vista un messia. Il problema era questo prima del voto, e resta lo stesso dopo

c – in elezioni nelle quali la destra si presentava in braghe di tela e il PD non scoppiava certo di salute, dopo un quinquennio di discredito crescente e debordante per le regioni e le loro (scusate) “classi dirigenti” si poteva pensare che il M5S avrebbe mietuto a man bassa. Non è successo. Solo nelle Marche e in Puglia, dove si erano divise perfino le schiere di “Forza Italia”, i grillini si sono piazzati al secondo posto, senza peraltro superare il 20%; nelle altre regioni sono terzi o peggio, e perfino in Toscana dove tutto sembrava congiurare a loro vantaggio, hanno ceduto la piazza d’onore alla Lega. Ci si domandava se in elezioni politiche generali il M5S potesse puntare al ballottaggio. Dopo il voto del 31 maggio non ci crede più nessuno; l’euforia di Grillo per il “filotto” nei ballottaggi e le riverenze di qualche giornalista che fa finta di crederci sono piroette di breve durata.

Negli ultimi dieci giorni, tutte e tre queste considerazioni, che pure mantengono la loro validità e convergono nel presentarci una politica piuttosto incerta ed appannata, sono state spinte sullo sfondo. Corruzione e immigrazione si sono imposte con una drammaticità senza precedenti; ed è evidente a tutti che è assolutamente necessario pensare e agire con grande coraggio e spirito innovativo.

Per contrastare efficacemente la corruzione, ad esempio, si devono ripensare gli stessi principi ispiratori di ordinamenti dello Stato come sono le regioni e gli enti locali, o di interi comparti dell’economia, come è quello cooperativo. E’ inevitabile delineare e mettere in atto una drastica discontinuità rispetto ad esperienze che coincidono, in pratica, con l’intera vita della Repubblica. L’immigrazione che cresce in modo esponenziale, senza che si intraveda come e quando questo tsunami possa finire, chiama a sua volta in causa soprattutto l’Unione Europea, campione – fin qui – di impotenza e di ignavia.

Pensavo, e mi ostino ancora a pensare che le crisi in cui noi italiani siamo immersi riguardino essenzialmente la politica; e che, quindi, pur con notevoli difficoltà, con la politica e dalla politica possano essere risolte. Cresce invece in me il dubbio che non sia in gioco solo la gestione delle istituzioni (la “politica”, appunto) ma la tenuta stessa delle istituzioni, dentro i confini nazionali e nel continente di cui siamo parte. Me ne viene un senso di angoscia. Anche di paura, non lo nascondo.

 

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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