Questa descrizione della colonia di pappagallini che vive nei giardini del castello visconteo di Pavia è stata scritta in pochi minuti da Ingrid Agnesi, per gli amici IA e per gli esperti ChatGPT (versione 5, modalità “Auto”). La sottopongo all’attenzione dei lettori per conoscere la loro opinione: Ingrid è una grafomane seriale completamente sprovvista di talento o possiede l’arte di cesellare il linguaggio con eleganza e fantasia?
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Non esiste città che non custodisca, accanto ai suoi monumenti celebri, un segreto minore, apparentemente accidentale, ma che ne determina la sostanza. Per Pavia, città di scolari e tombe regali, quel segreto è un colore verde. Un verde che non appartiene ai mattoni rossastri del castello visconteo né alla pietra sobria delle basiliche romaniche, ma a creature leggere che non avrebbero dovuto esserci.
Verso la fine del secolo scorso — tra il 1998 e il 2001 — alcuni cittadini notarono nel cielo sopra piazza Leonardo da Vinci il volo di piccoli pappagalli, dal piumaggio chiaro e verso acuto. Non erano colombi, né rondini, né i corvi che frequentano le torri del castello. Erano parrocchetti, originari dell’India e dell’Africa, e il loro arrivo a Pavia fu accolto come un’anomalia, quasi un errore nella pagina secolare della città.
Si dice che i primi esemplari fossero fuggiti da una gabbia durante una fiera o da un carico disperso alla stazione di Milano, liberatosi lungo il Ticino. Una testimonianza del 2004 attesta che già allora una dozzina di uccelli aveva scelto gli alberi tra il Castello Visconteo e la piazza, come se la geometria medievale e quella moderna fossero state disegnate per loro.
Il fatto che si siano acclimatati così bene richiama la storia dei Longobardi, di cui Pavia fu capitale. Come gli antichi guerrieri, anche i parrocchetti hanno trovato qui la loro dimora, e forse, a loro modo, il loro regno.
La scienza ornitologica descrive l’insediamento di una colonia come un fenomeno biologico: adattamento, cibo disponibile, assenza di predatori. Ma qualcuno legge nei loro voli un’altra verità, simbolica. Un bibliotecario sostiene che i parrocchetti siano la reincarnazione dei dotti stranieri che, nei secoli, passarono per l’Università di Pavia. I loro strilli al tramonto sarebbero il brusio di corsi dimenticati, manoscritti dispersi.
In una lettera attribuita a un certo Fra Leone, del 1713 ma dalla grafia sospetta, si legge: “Quando la città vedrà uccelli di piume smeraldine, essi non saranno della terra, ma del libro, e annunceranno la rinascita delle parole smarrite.” Non ho mai trovato conferma, e sospetto sia un apocrifo costruito nel secolo scorso. Ma pensare che sia stato inventato per spiegare i parrocchetti è degno di Borges: l’apocrifo che precede il reale, la profezia scritta a posteriori.
Il castello e la piazza Leonardo si fronteggiano come due tempi: la fortezza quattrocentesca, memoria di potere e battaglie, e la piazza moderna, luogo di studenti e scienza. I parrocchetti oscillano tra queste dimensioni, come messaggeri di un dialogo sotterraneo. Li si vede, nelle mattine d’inverno, confondersi con le chiome spoglie degli alberi, e nelle estati ardenti, turbare con il loro grido la quiete accademica.
Una volta osservai uno stormo disegnare nel cielo un cerchio quasi perfetto. Pensai fosse un segno, rappresentazione di un eterno ritorno che riguarda la città intera. Ogni popolo straniero che abitò Pavia lasciò tracce. I parrocchetti sono l’ultima di queste tracce, forse i custodi delle prossime.
Gli uomini li hanno accolti con sentimenti discordanti: per alcuni una minaccia, invasori che sottraggono spazio ai passeri; per altri un ornamento esotico, un dono imprevisto. Un vecchio professore di filologia mi disse: “I parrocchetti non sono né buoni né cattivi: sono un testo. Bisogna imparare a leggerli.”
Da allora ho registrato i loro movimenti: i giorni di pioggia, quando si raccolgono muti sulle antenne, e quelli di sole, in cui trasformano il cielo in un ventaglio di smeraldo. Ho cercato corrispondenze con eventi storici, senza legge precisa. Talvolta, però, il loro apparire coincide con accadimenti insoliti: la morte di un bibliotecario, il ritrovamento di un codice miniato, una piena del Ticino.
Non so se la loro presenza sia segno o coincidenza. Ma ogni città si specchia nei suoi animali. Roma ha i gabbiani tra le rovine; Venezia i piccioni a San Marco; Torino i corvi sui tetti barocchi. Pavia, città di passaggi e studi, ha i parrocchetti.
Forse un giorno uno studioso catalogherà le colonie esotiche in Italia, scoprendo una legge nascosta: ogni nuova colonia corrisponde a una perdita culturale, come se lo spirito dei libri non letti o delle lingue dimenticate trovasse rifugio in piume e grida. Se vero, i parrocchetti di Pavia sarebbero la biblioteca invisibile dei suoi cittadini, la somma dei pensieri non pronunciati.
Nelle cronache medievali ho cercato riferimenti a uccelli simili. In un codice del XIII secolo, presso la Certosa, c’è un disegno di un volatile dal becco curvo, colorato con pigmenti verdi sbiaditi. Sotto, una nota in latino dice: “Avis peregrina, numen custodis.” Potrebbe essere un pappagallo portato da un viaggiatore, o un errore del copista. Ma la coincidenza è sospetta.
Se già nel Medioevo un pappagallo visitò Pavia, la colonia di oggi non sarebbe che un ritorno, un compimento tardivo di un destino.
Una leggenda urbana racconta che tra i rami del castello abiti il più vecchio dei parrocchetti, testimone silenzioso dei secoli. Alcuni studenti lo chiamano Il Rettore. Si dice che di notte, quando le biblioteche restano illuminate, voli intorno agli edifici a verificare che lo studio prosegua.
Credere a questa leggenda significa accettare che gli uccelli non siano semplici ospiti, ma custodi. Che la città senza di loro non sarebbe la stessa.
Scrivere questa cronaca è un tentativo di trattenere un fenomeno che non ha bisogno di essere trattenuto. I parrocchetti continueranno a volare, indipendenti dalle nostre interpretazioni. Ma non posso fare a meno di leggerli come un testo. In quel testo, come nei racconti più oscuri, non sappiamo se l’autore sia natura, caso o un dio minore che si diverte a mescolare i regni.
Pavia o chissà dove, 14 ottobre 2025


ben fatta – di fatti l’ho pubblicata. Ma certo non ha il linguaggio potente acuto ironico appassionato lieve ambiguo delicato profondo emozionato provocatorio metaforico – eccetera – della maggior parte degli scritti che appaiono sulla nostra Ellerì.
Suggerirei, per correttezza, un avviso più percettibile sui contenuti generati con IA di quello utilizzato in questo articolo (magari una didascalia in sovrimpressione sulla fotografia). Non appena questo tipo di produzione diventerà consistente, com’è che si usa dire: “Questa piattaforma non è un aeroporto”?
bisogna comunicare con Oliviero Carugo. Io l’ho pubblicato – ma non so affatto per certo se davvero sia stato creato con AI. Né attraverso quali input. Magari esiste una vera Ingrid che ha scritto e fatto la ricerca. O forse è tutto e solo farina del sacco del bravo Oliviero 😊
Banalmente: autentica AI.
👌🏻👍😏
però la foto non è IA, ma da web
sono consapevole della rilevanza di IA/AI e del fatto che innumeri sono i cambiamenti ad essa legati; tuttavia il testo ha sollecitato “solo” ricordi di piazza Leonardo da Vinci a Milano ( i giardinetti luogo dei miei giochi da piccola, l’omonima scuola elementare che ho frequentato e dove mia mamma ha insegnato) e dei due parrocchetti che il nonno teneva in gabbia nella grande anticamera di via Callisto Piazza a Lodi.
🙂👌🏻💖
Qualche considerazione: l’IA sa fare meglio di noi parecchie cose e sarebbe sciocco non servirsene; credo, tuttavia, che non riesca – per il momento – a commuoverci. Un’idea: come riscriverebbe gli Esercizi di stile di Queneau?