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Racconti

Il Palazzo, Dopo

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Dopo

Cambiarono molte cose. Mio padre andò via da casa. Una zia si sposò.
L’altra potè finalmente portare a casa una bizzarra creatura di vent’anni, una donnona assai bella, ma che tracannava gin e fumava come un portuale. Mia nonna, quando ancora c’era, l’aveva bandita dalla sua vista, ma ormai…Mia zia l’aveva conosciuta anni prima, al ritorno da un viaggio a Londra dove aveva incontrato l’uomo della sua vita. Scrisse una lunga lettera per raccontare di com’era felice, di quanto desiderasse dei bambini con quest’uomo, di quando e come si sarebbe trasferita per iniziare la sua nuova vita. La lettera la lesse papà, commuovendosi, davanti a tutta la famiglia riunita intorno al tavolo del salotto buono. Mia nonna, per nulla commossa, rispose con un telegramma:”Dimentica di avere una madre”. Così dopo qualche giorno mia zia tornò a Roma, più appuntita che mai. Le si leggeva negli occhi la vendetta. Che infatti fu puntuale: Bruna, la donnona.
Un’amicizia sconveniente che tutti, tranne mia nonna, facevano finta di non considerare. Bruna abitò con noi per quattordici anni. Dopo le prime schermaglie di gelosia, l’accettai come una sorella . Le volevo molto bene e mi rivolgevo a lei per ogni mio guaio. Mi difendeva, mi sgridava, mi aiutava. Mi era complice. Quando se ne andò anche mio nonno, e rimanemmo in tre nel grande appartamento del Palazzo, Bruna diventò sostanzialmente l’uomo di casa.

Si sposò anche Lucia, col suo cattivo fidanzato, il futuro cattivo marito. Continuava a venire da noi, però: arrivava al mattino e andava via il pomeriggio, lasciando sui fornelli pasti troppo salati, o troppo sciapi, o troppo vendicativi. Mio nonno fu, a poco a poco, strappato alla ragione. Cominciò ad avere idee strapazzate. Frullati di ricordi. Lo sistemavano tra noi bambini, affidandocelo, e lui restava immobile per ore a guardarci giocare . Per molti anni ancora ebbe occhi gentili . A volte si alzava all’ improvviso con l’aria di chi doveva andare.

“Dove vai, nonno?”
“Eh, l’America. Gli affari…”
E bisognava riprenderlo, metterlo a sedere, raccontargli delle storie per distrarlo da tutte quelle persone che si sentiva intorno. Ma a volte era lui che distraeva noi. Restavamo incantati dalle discussioni tra fantasmi. Senza accorgerci, muovevamo la testa da mio nonno all’angolo con cui dialogava. Aspettavamo le risposte. Ci ritrovavamo a sorridere o ad aggrottarci secondo i toni della discussione. I migliori marinai della nave della follia sono i vecchi e i bambini. Ci sono rotte dove i Grandi non si avventurano, nemmeno quando sono pazzi.

Lucia spiava :”…tutti scemi qua…”. Dalla morte della nonna aveva artigliato la nostra casa, e non c’era cassetto in cui sapessimo cosa c’era dentro davvero. Le stanze erano diventate grandissime. Ma non silenziose, per via di tutta la gente che mio nonno invitava. Lui era sempre molto elegante e ormai portava il borsalino anche in casa, benché facesse segno di toglierlo ogni volta che vedeva una donna, vera o immaginaria che fosse. La cosa di cui sono sicura è che non invitò mai, mai, mai la nonna. Lo prese invece una certa frenesia sessuale, una continua memoria di seni e di sederi, che lui descriveva a noi bambini con uno schioccar di lingua e un certo sorriso.

Fino a quando non si volle considerarlo capitolo chiuso, gli fu lasciata una qualche autonomia e una dignità d’azione. Così permettevano che mi portasse a fare “un giretto”. Invece andavamo lontano. Mi portava da certi suoi amici, certi anziani che erano stati a lungo giovani. Giocavano con le carte napoletane e spesso dividevano col nonno quei ricordi di seni e di sederi. Imparai così che i vecchi non invecchiano e che il passare degli anni non li rende quasi mai più saggi o più rispettosi del tempo e della vita. Imparai anche che quando i vecchi cominciano a ridere non si sa mai dove vanno a parare: se continuano a ridere o si perdono a piangere. Non lo sanno nemmeno loro.

Il nonno cominciò a darmi nomi diversi dal mio. Poi, una volta ero una femmina, altre un maschio. Avevo identità diverse. Maria, per esempio. Maria La Banca, mi chiamava. Solo trent’anni dopo quei pomeriggi di stupori, visitando il paese dove lui era nato, scoprii che Maria La Banca era esistita davvero. Era la figlia di un notaio che abitava proprio davanti alla casa dei bisnonni. Una bambina che era stata sua amica e , forse, il suo primo amore. Penso che l’abbia dovuta lasciare per andare in America, solo e clandestino. Come poi era rimasto per sempre. Accettai il nome come un segreto tra me e mio nonno. Incredibile quanti segreti debbano tenere i bambini.

Mentre il nonno s’indaffarava con vasi e fiori, giravo per il Verano leggendo di abbandoni e lacrime. Imparai a conoscere tutti i traditori, tutta la gente che se n’era andata all’improvviso, lasciandosi alle spalle inconsolabili e disperati. Scoprii che anche la mamma abitava lì, quello era stato il suo famoso viaggio. Un posto dove si poteva arrivare con il tram numero 11. E che io ero tra i traditi.

Incontravamo spesso una signora ancora giovane, che aveva però i capelli così bianchi da essere azzurri. Andava a trovare il marito, un certo Aldo. Una grande tomba barocca, per due. La signora aveva fatto aggiungere il suo nome a quello del marito. C’erano le date di nascita e il signor Aldo aveva anche quella della morte. Di lei, invece, restava sospesa una nascita che senza il marito sembrava un fregio d’inutilità. Anna, si chiamava, e aveva intorno una solitudine densa.
Era così distante che se mi faceva una carezza, non sentivo la sua mano. Poco tempo fa mi è capitato di passare davanti a quel monumento al dolore. La data della morte, sotto ad “Anna” non c’era ancora.
Spero solo si sia data pace, ché pensarla soffocata dalla densità del nulla per più di cinquant’anni mi toglie il respiro. Chissà cosa ne è stato di lei. Certo è che un giorno é nata, il resto è caso, e cioè un modo rassicurante di anagrammare il caos.

Dicono che morire sia naturale. Forse. E’ restare che a volte diventa artificioso . Non c’è da confondere il bisogno di bere e mangiare e amare per una naturale accettazione della morte. O una ripresa della vita. Certe vite non riprendono. La morte di chi ci è caro , di chi abbiamo molto amato o molto odiato, è come una bomba lanciata in mezzo ad un mercato. Ciò che siamo stati va a finire su una natura che arriva in città col camion e che, nel viaggio , ha perso profumo e sapore. (continua)

 

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