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Racconti

Il Palazzo, I ritorni e le partenze

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Al ritorno a Roma c’erano scampoli di vacanza. Papà portava me e Daniela sulla sua Giulietta Sprint bianca come due signorine delle sue. Si andava al Kursaal di Ostia, che compariva all’improvviso in fondo alla strada con la sua enorme ruota di trampolini impossibili.
Avevamo costumini colorati con il pezzo di sopra, volants, fiocchi e sandali di legno col tacchetto. Avessimo potuto portarli anche d’inverno! Com’eravamo carine, e civette! Le prime creme solari che arrivavano dalla Francia avevano la stessa consistenza delle meduse e un odore di olio caldo dal quale non ci si liberava facilmente. Come della sabbia in fondo al letto. E’ certo che Lucia facesse apposta a non toglierla. Al mattino chiedeva “dormito bene?” col tono limonoso di chi al mare non era stata portata.

Tra le cose migliori dell’estate c’era il tornare nel Palazzo, e raccontarla. Condita. Stare a sentire le balle degli altri e fare “boom!” ”No, giuro, è vero!”. E giù pacche sulle spalle, ché a una certa età non si sa come stare vicini e si diventa maneschi. Ogni esperienza tagliava i fili che legavano uno all’altro e noi stessi all’infanzia. Ci saremmo rincontrati, poi, in altri occhi e in altre vite. Pallide ripetizioni. Echi. Un’appartenenza da giacca troppo stretta per essere rassicurante e calda, ci avrebbe accompagnato.
Crescevamo. Il Palazzo invecchiava, e non erano più lucidi i suoi ottoni, né sembrava forte il suo legno,  s’impolverava il marmo.
Avremmo potuto salvarci con un balzo se mai ci fosse capitato di cadere in una delle sue vasche : era tempo di cercare altri pericoli.
Nei segni che lasciavano i nostri racconti sui visi degli altri era ormai rivelato ( e con quale dolore !) chi di noi avrebbe avuto l’abitudine al niente e chi avrebbe, invece, continuato a viaggiare.

…Fa voti che ti sia lunga la via
e siano tanti i mattini d’estate
che ti vedano entrare (e con che gioia
allegra!) in porti sconosciuti prima.
Fa scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d’ ogni sorta,
quanti più puoi voluttuosi aromi…
(Kostantin Kavafis)

Da ogni vacanza tornavamo cambiati. Più alti, più agili, più belli,
sì. Ma la bellezza tendeva tranelli

S’avanza uno strano soldato

Crescevo. Tutti i Grandi mi dicevano come sarei diventata bella, e quanti cuori avrei spezzato, e quanto gli uomini avrebbero dovuto proteggersi da me. E ci credevo. Mi mettevo davanti agli specchi e facevo le mosse che vedevo fare al cinema alle dive. Ore e ore, anche se nelle orecchie mi era rimasta la voce di mia nonna che mi avvertiva: ”Se ci si guarda troppo allo specchio esce il diavolo”. E uscì. Mentre mi ammiravo vidi improvvisamente l’Imperfezione. Pendevo un po’ da una parte, come fossi su una barca e cercassi di mantenere l’equilibrio. Per caso raccontai durante un pranzo di quella leggera pendenza e subito mi acchiapparono e mi esaminarono accuratamente.
Bisbigliavano, i Grandi, come ogni volta che erano preoccupati. Quando mi dissero che dovevamo andare da un dottore che non era il solito zio Giorgio ebbi paura. E ne avevo tutte le ragioni. Funzionò così: dopo avermi maneggiato, il Professorone mi affidò a  due uomini grossi che mi presero per le mani e per i piedi. Tiravano e torcevano, mentre un altro uomo rollava il mio corpo dal mento ai fianchi con bende ghiacciate. Era gesso. Il dolore arrivò subito, fortissimo. Il Professorone disse: “quarantotto ore e poi ti giuro che passa”. Vero. Passò il dolore e  mi ritrovai in una bianca armatura, con l’animo di una tartaruga rovesciata sulla schiena. Una schiena anni 60 che mancava di calcio, di latte, di vitamine e si era aggrovigliata. Anche lei, come me, cercava di sfuggire alle situazioni prestabilite, ai binari arrugginiti del dopoguerra.

Finirono i giochi. Mi muovevo pesante in  un presente nel quale non riuscivo ad immaginare un futuro.  Potevo guardare in alto ma non di lato, non in basso. Quella prigione bianca era tagliente e prepotente.

“Che c’è lì che mi fa male?”

”Niente, niente” mia zia  e Bruna spalmavano balsami dove l’armatura si poggiava, lasciando solchi rossi. Sulla pelle i segni passarono, ma mai, mai si cancellarono quelli del mio orgoglio, della delusione profonda che avevo inflitto a tutta la famiglia. Me lo disse papà:

“Devi essere forte: non sarai più bella come lo era tua madre”.
Colpita, affondata, muta.

Il gesso mangiava la mia carne morbida di ragazzina, già pronta, invece, per le prime carezze. Mi mangiava sogni, fantasie e pazienza.

Nella mia scuola per signorine, però, la mia armatura diventò molto popolare. La diversità ancora una volta mi aveva raggiunto. Invitarmi a una festina, approntare la casa per accogliere lo strano soldato che guardava in alto, accompagnarmi, guidarmi, imboccarmi, essere mie amiche, diventò un prestigio. Loro, così dritte e pettinate, si confidavano con me come se fossi la statua di un dio cui rivolgersi. Le maestre più severe sdilinquivano. Anche il prete che ci confessava ogni martedì mi lasciò stare. Perfino Lucia mi rispettava. Comandavo e ubbidiva. Mio nonno, già confuso di suo, quando ci incontravamo in casa lasciava il passo alla strana creatura che ero. Forse vedevano nei miei occhi il Diavolo dello specchio. Infatti, incattivivo.
Sbaglia chi pensa che soffrendo si diventa buoni.

Daniela e gli amici di sempre evaporarono. Gli strani soldati devono imparare subito che fanno spavento, ma era così doloroso che mi ritrovai con una corazza fuori e una dentro.  Il mio odio per tutti quelli che mi abbandonavano si spalmò come burro sul pane caldo. Tagliai gli ormeggi anche con quel padre piangente e irraggiungibile: capii, finalmente, che non ero io a non poterlo raggiungere, ma lui che non voleva farsi prendere. Fu una grande liberazione. Che andasse, dunque. Io avevo altro da fare nella mia cella bianca: in bizzarre posizioni leggevo e studiavo. Ascoltavo tanta musica. Malmessa fuori, miglioravo dentro.

Passarono otto mesi. A scuola fui promossa, naturalmente. Le amiche dritte e pettinate partirono per le vacanze ed io tornai dal Professorone. Con grandi forbici tagliò la mia fortezza, di nuovo mi esaminò. Poi andò a parlare con mio padre e con mia zia nell’altra stanza. Sentivo “Purtroppo…operazione…forse…”.  Al posto della mia I pendente c’era ora una S. L’Infanzia aveva lasciato il posto alla Solitudine.

  “No!” gridai e tutti mi guardarono. Ero una cosetta nuda, con i seni che non erano riusciti a uscire, magra, pelosa, i capelli stopposi per tutto lo shampoo secco usato in quei mesi. Anch’io li guardai:

“Giuro che mi ammazzo” il Diavolo fissò mio padre e sibilò: ” tu sai che lo faccio!”. Colpiti, affondati, muti. Ci accordammo io e il Professorone, per una gabbia di ferro che potevo togliere la notte. Dovevo andare a nuotare tutti i giorni. “Per quanto tempo?” chiesi. ”Se tu fossi un uomo ti direi finché non ti cresce la barba”.
Accettai: ero così leggera quel giorno, come una donnina di Chagall tendente al cielo.

Così iniziò la mia adolescenza umida. Nuotavo e nuotavo, il Diavolo di fianco. La gabbia era sopportabile per me e anche per gli altri.
Ricomparve Daniela, ricomparvero Rocco e Maurizio. Perdonai tutti, perché tanto non m’importava più di loro. Le maestre severe mi chiedevano dolcemente e continuamente come mi sentissi. Rispondevo che avevo l’iniziale del mio nome sulla schiena, la S di Serena, e che mi sarebbe andata peggio se mi fossi chiamata Edith, o Alessandra, o Helga.

”Chouette… !” dicevano facendomi una carezza. Non le volevo più vedere. Dissi a casa che intendevo cambiare scuola, andare dove andavano “tutti”. Perché, dissi guardando mio padre: “Se non posso più essere speciale come la mamma, mi devo mischiare”. Colpito, affondato, muto, papà m’iscrisse al mio amato liceo Tasso. (continua)


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