Insegnare a leggere e a scrivere

È passato molto tempo da quando la scrittura analogica — fatta di carta, inchiostro, grafite — ha ceduto il passo alla scrittura digitale. Un passaggio epocale, che ha modificato radicalmente non solo gli strumenti della comunicazione, ma anche le sue strutture cognitive più profonde. Eppure, nonostante la portata di questo cambiamento, molti sembrano non averne compreso appieno le implicazioni culturali, pedagogiche ed esistenziali.
Un evento che può essere paragonato, per forza dirompente, alla nascita della stampa. Quando il libro cominciò a diffondersi, la trasmissione del sapere smise di essere monopolio dell’architettura, dei codici visivi e simbolici scolpiti nelle pietre delle cattedrali. In Notre-Dame de Paris, Victor Hugo – nel celebre capitolo “Questo ucciderà quello” – scrive una pagina profetica: “Il libro ucciderà l’edificio… alle lettere di pietra di Orfeo stanno per succedere le lettere di piombo di Gutenberg.” Oggi, potremmo aggiungere: le lettere di piombo si sono dissolte e sono diventate bit.
La scrittura si è smaterializzata, il testo ha perso il suo corpo tangibile. Ma al contempo, il testo digitale è tangibile in modo nuovo — interattivo, tracciabile, manipolabile — e questa nuova tangibilità ha modificato il rapporto tra autore, lettore e significato, aprendo scenari radicalmente nuovi. Questo passaggio ha avuto conseguenze profonde anche a livello cognitivo.
L’intelligenza sequenziale, che si esercita nella decodifica lineare della scrittura (una parola dopo l’altra), sembra cedere terreno a un’intelligenza simultanea, tipica della decodifica per immagini, mappe, flussi visivi. Il cervello delle nuove generazioni si sta adattando a un ambiente comunicativo che è, in larga parte, visivo, multisensoriale, interattivo. La scrittura digitale, oggi, è affiancata da un nuovo protagonista: l’intelligenza artificiale. Strumenti come ChatGPT non sono solo assistenti digitali, sono nuove forme di mediazione simbolica e contribuiscono a modellare l’ambiente discorsivo in cui pensiamo, leggiamo, scriviamo e dialoghiamo: non pensano, non comprendono nel senso umano del termine, ma simulano il linguaggio, e lo fanno con un’efficacia che mette in discussione i concetti stessi di creatività, originalità, autorialità.
In questo scenario, il problema educativo che si pone è urgente e tutt’altro che secondario: è ancora possibile insegnare a leggere e a scrivere, dalla scuola dell’infanzia all’università, con i metodi pedagogici tradizionali? I programmi scolastici sono stati realmente aggiornati per far fronte a un mondo in cui informatica, interfacce e intelligenza artificiale plasmano il pensiero? Gli insegnanti si rendono conto che insegnare a leggere e a scrivere come se nulla fosse cambiato equivale a fornire strumenti spuntati a chi dovrà muoversi in un mondo nuovo?
Il Piano Nazionale Scuola Digitale, le indicazioni Nazionali per il curricolo e le Linee guida per l’Educazione civica affrontano il problema e contengono riferimenti alla cittadinanza digitale, definita come quell’insieme di competenze digitali, etiche, critiche e relazionali che permettono di usare consapevolmente la tecnologia, partecipare attivamente alla società e tutelare i propri diritti e la propria identità online. Tuttavia, spesso nella pratica scolastica, il tutto si riduce a strumenti e nozioni tecniche, senza affrontare in profondità il rapporto tra linguaggio, pensiero e media.
Interessante monitorare i dati dell’Osservatorio Scuola Digitale del MIMA* (clicca qui), per conoscere i risultati raggiunti in fatto di investimenti in strumenti, competenze e formazione per la didattica digitale.
A supporto delle scuole è stato pubblicato nel 2021 un Sillabo** (clicca qui) per l’Educazione civica digitale che ha lo scopo di inquadrare il corpus di temi e contenuti che sono alla base dello sviluppo di una piena cittadinanza digitale degli studenti attraverso il percorso educativo. “Sillabo non sostituisce le Indicazioni Nazionali, ma intende costituire un’integrazione ad esse, allo scopo di una successiva introduzione ordinamentale nei modi previsti per il sistema scolastico.”
Ma Sillabo è realmente utilizzato? Molto dipende dalle competenze e dalla sensibilità dei singoli docenti, dalla formazione ricevuta e dal tempo reale disponibile nei curricoli. Le attività legate all’educazione digitale restano spesso marginali, mentre dovrebbero essere trasversali e integrate stabilmente nel percorso formativo, specie nelle discipline linguistiche. Non possiamo né demonizzare il presente né idealizzare il passato. L’innovazione non si arresta, la scrittura e la lettura continuano a evolversi.
Il compito dell’educazione, allora, non è opporsi al cambiamento, ma comprenderlo criticamente e offrire agli studenti gli strumenti per navigarlo con consapevolezza. Insegnare a leggere e a scrivere oggi significa anche insegnare a difendersi da ciò che sembra “pensare” ma non pensa, da ciò che parla senza dire, da ciò che imita senza sentire. Significa riflettere su come possiamo utilizzare la tecnologia, ma soprattutto su come la tecnologia può trasformare il nostro modo di essere, le nostre capacità. Tradurre tutto ciò in attività didattiche articolate, capaci di attraversare davvero le discipline e i gradi scolastici non è semplice, diventa tuttavia sempre più necessario.

9 commenti su “Insegnare a leggere e a scrivere”

  1. FEDERICO MADERNO

    Quando alla fine degli anni ’90 sono usciti i primi libri digitali, si è alzato un coro di “De profundis” per il supporto cartaceo. Alcuni sociologi hanno preconizzato la sua fine nel volgere di un decennio. A quasi trenta anni da quella novità editoriale, i dati dicono più o meno che quasi il 70% dei lettori acquista esclusivamente cartaceo, mentre solo il 13% si avvale esclusivamente del digitale. E questo nonostante il prezzo eccezionalmente più basso del file. Se il costo per la lettura fosse uguale, immagino che il formato digitale sarebbe più o meno al valore di intenzione di voto di “Arietta democratica” (per citare Brunello Robertetti). Se poi chiedi in giro, massimamente tra i giovani, su cosa preferiscono leggere i lettori cosiddetti “forti”, potendo scegliere senza il condizionamento del prezzo, il digitale è praticamente non pervenuto. Ci sarà un motivo.

      1. FEDERICO MADERNO

        Ma vale anche per i testi scolastici. Sono anni che le case editrici producono versioni digitali dei libri adottati. Il successo della versione file è del tutto trascurabile. I ragazzi continuano a portare negli zaini chili di libri. Il fatto che nonostante la fatica preferiscano il cartaceo la dice lunga sulla diversa fruibilità delle versioni. Del resto, basta fare una prova (che io ho fatto). Assegnare a alcuni ragazzi la comprensione di un testo su carta e lo stesso in versione digitale. A parità di tempo, i concetti desunti dal cartaceo sono molto più acquisiti, consolidati, memorizzati. Non sempre l’evoluzione tecnologica prende strade virtuose e/o vantaggiose. Per esempio: video in digitale versus pellicola (non c’è paragone), strumenti musicali elettronici versus strumenti meccanici (impensabile la sostituzione). Naturalmente si tratta solo di opinioni.

        1. Il problema è: “Gli insegnanti si rendono conto che insegnare a leggere e a scrivere come se nulla fosse cambiato equivale a fornire strumenti spuntati a chi dovrà muoversi in un mondo nuovo?” Naturalmente ognuno fa ciò che gli pare giusto e che gli consentono le norme ministeriali.

  2. Come ho scritto nel precedente articolo: “Il mondo è cambiato. Gli strumenti digitali, l’intelligenza artificiale, l’accesso illimitato alla conoscenza, i percorsi di apprendimento legati all’informatica hanno modificato profondamente il rapporto con il sapere”. … “Oggi più che mai è necessario avviare una riflessione seria e condivisa sul futuro della scuola — una riflessione che coinvolga non solo i politici e i funzionari del ministero, ma soprattutto gli insegnanti, gli studenti, gli intellettuali e l’intera società. Dobbiamo chiederci quale scuola vogliamo, con lo sguardo rivolto al domani, non al passato, consapevoli che l’intelligenza artificiale avrà un effetto deflagrante.”

  3. “Il controllo sociale è radicato nei bisogni che esso ha prodotto.” Marcuse, l’uomo a una dimensione.
    Se la scuola non si assume il compito di formare al pensiero critico, rischia inevitabilmente di diventare uno strumento di riproduzione dell’alienazione. Invece di spingere gli studenti a interrogare il mondo, li abitua a ripetere ciò che è già stato detto. Invece di valorizzare l’autenticità, incoraggia l’obbedienza e il conformismo. E spesso, invece di premiare la comprensione profonda e il pensiero autonomo, valuta soltanto la performance, l’efficienza, il risultato.
    In un tale contesto, la scuola finisce per allinearsi – forse inconsapevolmente – a un modello di controllo sociale che forma individui adattabili, ma non consapevoli. La capacità di interrogarsi, di porsi domande scomode, di mettere in discussione i presupposti culturali o ideologici che ci circondano viene progressivamente atrofizzata. E proprio qui si annida il rischio più profondo: quello di un’alienazione che non viene più percepita come tale, perché mascherata da successo, competenza o realizzazione personale. Per questo, educare alla consapevolezza dei meccanismi di controllo – non solo esterni, ma anche interiorizzati – diventa un atto educativo fondamentale. Occorre offrire strumenti critici, aiutare gli studenti a riconoscere come funzionano i dispositivi simbolici, culturali, mediatici che influenzano i loro desideri, le loro scelte, le loro idee.

  4. Per restituire prestigio e autorevolezza agli insegnanti basta reintrodurre un voto in condotta più severo o applicarlo con maggiore rigore? Ma davvero basta un numero per rimettere in piedi una figura che da anni subisce un lento e sistematico svuotamento di senso e riconoscimento sociale? È difficile pensare che sia così semplice. L’autorevolezza non si impone, si guadagna. E non può reggersi solo sulla disciplina imposta dall’alto o su sanzioni simboliche. Perché gli studenti lo sanno — e lo dicono, anche con brutale franchezza: “Prof, lo sa che quello che è stato bocciato l’anno scorso ora lavora qui vicino? E prende più di lei”. In un mondo che misura tutto in termini di efficienza e guadagno, anche la dignità del docente viene misurata sulla base dello stipendio. È difficile chiedere rispetto quando si è trattati come lavoratori di serie B, spesso ignorati nei processi decisionali, oberati da burocrazia e logiche aziendalistiche, e al tempo stesso chiamati a svolgere un ruolo educativo fondamentale. Ma non è solo una questione di salario. Il prestigio e l’autorevolezza di un insegnante dipendono anche dal modo in cui la società percepisce il sapere. Finché il sapere verrà considerato un optional, un accumulo sterile di nozioni scollegate dalla vita, l’insegnante resterà una figura marginale. Se invece si riconoscerà al sapere un valore trasformativo, allora anche chi lo trasmette potrà tornare ad avere un ruolo centrale.In questo senso, il riconoscimento economico è una condizione necessaria ma non sufficiente. Occorre ripensare l’idea stessa di scuola, restituire agli insegnanti non solo un salario dignitoso, ma anche fiducia, libertà didattica, possibilità di crescita e soprattutto un orizzonte culturale condiviso.Perché altrimenti, sì, si rischia davvero di affidare all’obbedienza e al voto in condotta il compito di tenere in piedi una scuola in cui non si crede più. E allora non sarà più autorevolezza: sarà solo controllo

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