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Le pitture fuori tempo

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Aurelio Bulzatti

Tra il 1983 e il 1993 Aurelio Bulzatti (Argenta,1954) realizzò alcune opere di alta qualità che si imponevano alla vista come squisiti saggi di pittura, da apprezzare come musica da camera, per la vibrante pennellata che suscitava luci diffuse, composizioni artificiali di esterni e interni derivati da cose viste e fissate nel registro della memoria.
Si muoveva su questa posizione distinta e aristocratica di pittura ‘fuori tempo’, quasi senza saperlo, assieme ad un altro pittore suo coetaneo, Maurizio Ligas (1955) anche lui cresciuto a Bologna nel clima sperimentale e autodistruttivo degli anni Settanta, ma più incline a civettare con le ironie spaesanti di un nostalgismo alla De Chirico.
Più turbato e dispersivo, Ligas interruppe bruscamente di dipingere con mio sommo dispiacere (era un bel ragazzo, beveva troppo, morì cinquantenne per una sbandata su un viottolo della Val d’Orcia) perché lo consideravo un artista di valore, condividendo il parere di Plinio De Martiis e Marisa Volpi che lo difendevano in nome di un ritorno autentico ai ‘valori’ della pittura.
Così era anche, e forse più, per Aurelio Bulzatti. Alcune sue nature silenti, riviste dopo trent’anni, conservano un fascinoso potere di attrazione. Sono, al di là del tempo, delle ‘opere’ che recano benefico piacere a chi le osserva senza schemi e pregiudizi.
Bulzatti, come Giorgio Morandi, avrebbe dovuto e potuto proseguire sulla via intrapresa, con piccole varianti ‘ripetendo il suo verso’. La sua ‘elegia luminosa’ si sarebbe arricchita di opere fornendo all’arte italiana un antemurale poetico al nichilismo estetico imperante.
Ma anche Bulzatti concluse a un certo punto che quella vena pittorica doveva ‘sconfinare nel tempo’ per adeguarsi al commento esistenziale, alla parabola sociale e perfino esoterica. Il faro della pittura si orientò altrove, la luce sfarinò in mille rivoli.
Oggi Bulzatti dipinge altre cose. Ma non ha mai raggiunto le altezze del suo primo, luminoso, e originalissimo esordio. Forse era inevitabile. Forse no.

Interno - 1987

Interno – 1987

Piazza del Pratello - 1983

Piazza del Pratello – 1983

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DUCCIO TROMBADORI

Duccio Trombadori. Nato a Roma nel 1945, figlio e nipote d’arte, dal padre Antonello e dal nonno Francesco ha ereditato la passione per la politica e la pittura. Laureato in Filosofia, è stato giornalista, critico d’arte, saggista, docente di estetica alla università di Architettura di Roma. Ha iniziato a scrivere d’ arte su ‘L’Unità’ alla fine degli anni Settanta, ha continuato in seguito su ‘Rinascita’, ‘Panorama’, ‘Il Foglio’, ‘Il Giornale’, e sul Tg3. Esperto d’ arte italiana del ‘900, ha diretto una rivista d’arte (‘Quadri&Sculture’, 1993-1998) ed ha curato monografie di Mario Mafai, Francesco Trombadori, Antonio Donghi, Riccardo Francalancia, Giulio Turcato, Renato Guttuso, Mario Schifano, Mario Ceroli. Tra il 1993 e il 2013 ha collaborato a diverse edizioni della Biennale di Venezia, di cui è stato consigliere di amministrazione. E’ stato più volte consigliere di amministrazione della Quadriennale di Roma. E’ autore di un libro- intervista con Michel Foucault (1982) e di una biografia ragionata di Gino De Dominicis (2012) . Un suo libro di versi (’Illustre Amore’, 2007) è giunto finalista al Premio Viareggio. E’ pittore di piccoli paesaggi di gusto ‘novecentesco’ che ha esposto a Parigi e Roma tra il 1990 e il 2014.

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