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Manuale di sopravvivenza

Mai sottovalutare la parola casa

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Illustrazione Pierre Mornet ©

 

Stai tornando a casa, ma non riesci a infilare la chiave nella serratura. Ti tremano le mani. Due mesi d’assenza non prevista. Un malore di notte, panico e delirio aspettando il 118. Saresti dovuta rimanere lì pochi giorni, per accertamenti. Saresti… Sono diventati due mesi di vita ospedaliera; alla fine eri una delle “anziane”, dopo due mesi riconoscevi anche i passi degli infermieri, alcuni strascicati e pesanti di chi non ha voglia di far nulla, altri sempre di corsa e indaffarati, altri leggeri, quasi sorridenti.

In quei mesi la notte spesso non riuscivi a dormire e ti mettevi ad ascoltare, togliendoti i tappi dalle orecchie, i passi degli infermieri per chiedere il sonnifero. Veniva dato di straforo, se non te lo portavi da casa. Sembrava chiedessi eroina allo stato puro. Dopo due mesi, l’uscita, il ritorno a casa. Ora sei nel marasma totale. CASA.

Come avevi sottovalutato quel termine! Quattro lettere, un mondo, il tuo mondo.

Riesci finalmente ad aprire la porta, getti le valigie per terra e ti sdrai sul divano a occhi chiusi. Inizi a risentire piano gli odori dimenticati: deodorante, bagnoschiuma, crema per piedi, per i talloni secchi ─ nessuno sfugge, cara mia, ai talloni secchi.

Con fatica ─ due mesi di quasi inattività non è che rendano più ginniche ─ ti alzi e prepari il caffè. Lo brami da giorni, mesi. Gorgoglio della moka, aroma del caffè per tutta casa, la tazzina in ceramica e non il bicchiere di plastica. Un piacere lussurioso, godurioso, quasi orgasmico.

Ti eri ripromessa dopo il caffè di iniziare a dare una sistemata in casa, ma commetti un grave errore: entri in camera da letto.

Le lenzuola, le stesse di due mesi fa, scarpe, ciabatte tutto in giro. Cerchi qualcosa guardandoti intorno; eccola, la tua coperta di Linus, la felpa del tuo compagno. Ti spogli da vestiti che puzzano di ospedale, la forza di farsi una doccia non l’hai. Indossi una maglietta e ti accoccoli nel tuo letto.

Metti la tua coperta di Linus vicino al viso e crolli in un sonno profondo. Il primo, dopo due mesi, con un sorriso. Fine. Sembra un copione di Frank Capra, vero? Non lo è.

È che a volte la vita è così, con il lieto fine. E semmai immaginarselo non fa male a nessuno.

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FRANCESCA TURCHETTI

Orgogliosa di far parte della Generazione X in un mondo alla deriva, mi sono buttata sulla scrittura come panacea di tutti i mali. Più che scrittrice posso affermare senza timore di smentita di essere scribacchina, cercando di guardare e descrivere con occhio ironico e distaccato i moti del cuore, la vita difficile, i turbamenti di una vecchiaia che incombe; talvolta riusciendoci, altre volte fallendo in maniera poco onorovole. L'importante è provarci.

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