Nata per cantare

Mi piace pensare che forse sono nata cantando, certamente non piangendo come tutti i bebè, ma intonando un sincopato nguè nguè, in quella stanza buia della casa materna, dove visse e morì Luigi Vanvitelli, a pochi metri dalla splendida reggia di Caserta che lui stesso edificò.
Narrava la leggenda che in quelle mura fosse stato nascosto il tesoro dell’architetto, tesoro per altro mai trovato per quanto si sappia.
E sempre in quella stanza, l’ultima in fondo, mia zia Maria, la soprano, si esercitava a fare i vocalizzi prima di ogni esibizione. Io, bambina curiosa e attenta, mi accovacciavo dietro una pila di libri ammucchiati nell’angolo più lontano per non fare avvertire la mia presenza, e la guardavo mentre controllava il diaframma con respiri profondi e lenti.
La sua figura alta e snella, si stagliava di tre quarti davanti a me, mentre si concentrava, fissando in alto l’unica finestra, da cui entravano raggi di sole che la illuminavano come In un quadro di Vermeer, e cominciava a scaldarsi la voce: mi iiii iii, mii iii iii i … Faceva le “scale”, quelle musicali, voglio dire, sempre più alte, e io sgranavo gli occhi in attesa di sentire fin dove arrivasse: mii iii iii iii ì…
Nella casa settecentesca, in particolare in quella stanza, c’era una atmosfera magica, vi aleggiava l’odore dei secoli passati, i fantasmi dei personaggi, veri o presunti; io sognavo ad occhi aperti di vederli davanti a me. Li aspettavo come persone di famiglia che si erano allontanate per un po’ e che prima o poi sarebbero tornate a trovarmi.
Quando poi mia zia attaccava brani d’opera da La traviata, Turandot, Madama Butterflay, la Bohéme, la Carmen, La Fanciulla del West ecc., io le vedevo apparire una a una nei loro costumi d’epoca.
Mentre mi volteggiavano intorno, sentivo il fruscio degli abiti, il profumo dei capelli, il ticchettio delle scarpe sul pavimento antico originale, in qualche punto sbrecciato, dove la nonna inciampava. La mia fantasia non aveva limiti e sognavo di essere ora l’una ora l’altra delle eroine che mia zia evocava col canto.
Memorizzavo cavatine e romanze, non solo, ma anche brani di operette che lei cantava solo per me, fingendo di non accorgersi di me, che, immobile, trattenevo il fiato ad ogni acuto.
In quei momenti mi spersonalizzavo, non ero più io, ero pura melodia, dramma, tragedia, fuori dal tempo e dallo spazio.

Delle operette mi piacevano Frou Fou del Tabarin e Madame di Tebe, che cantavo a scuola tra l’invidia e il sarcasmo delle compagne, scandalizzate che mi piacesse “quella roba lì”.
Spesso restavo a pranzo da loro e allora seguivo in cucina la nonna che si affaccendava intorno a un enorme focolare a carbone, rivestito di mattonelle antiche e colorate, tutte spaiate, ma le più belle che avessi mai visto. Mi mostrava la magia di come il cibo continuava a sobbollire nella pentola di coccio, anche tolta dal fuoco.
Più tardi, quando il fuoco andava esaurendosi, metteva sempre qualche mela nella celletta dove era la brace. Non dimenticherò mai il profumo di quelle modeste mele annurche, cotte e sugose.
Dopo aver sparecchiato, restando seduti intorno al tavolo, mio nonno prendeva la chitarra e si ricominciava a cantare; questa volta erano canzoni napoletane, le più antiche che abbia mai sentito.
Naturalmente le imparavo tutte e le cantavo a squarciagola tutti i giorni a casa mia, tanto che tutto il caseggiato mi chiedeva se avessi un canzoniere con i testi delle canzoni.
I pomeriggi trascorsi intorno a quel tavolo, nelle stanze dagli enormi finestroni alti, passati cantando, tra il profumo delle mele cotte, il cinguettio degli uccellini che nidificavano sui soffitti delle scale esterne, con la vista del mascherone della fontana del cortile, sono il ricordo più indelebile e felice della mia infanzia.
Frou Frou del Tabarin ti impongon la virtù, però sempre sempre tu, Frou frou, nel tuo palagio auster, non fai che sospirar“…

 

 

 

 

3 commenti su “Nata per cantare”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto