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Quirinale in controluce, Voto segreto

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Le cabine nell'aula di Montecitorio

“Cos’è quel catafalco”, “Sembra un confessionale, io non entro”, “Ma no, sono tamburi”. La mattina di domenica 17 maggio 1992 le ironie e le battute si sprecavano nell’aula di Montecitorio. In effetti, qualcosa di nuovo, e molto ingombrante, c’era: una grossa protesi lignea partiva dal banco del Governo, sotto la Presidenza e si allungava fino all’emiciclo.

Era l’esordio delle “cabine” elettorali, dentro le quali avrebbero votato i grandi elettori. Strano, senza dubbio. Come è noto, le cabine servono a garantire la segretezza del voto. Per eleggere il Presidente della Repubblica, come per altre cariche, il voto segreto è indicato in Costituzione. Si potrebbe, dunque, pensare che le cabine ci siano sempre state.

No! Per quarantaquattro anni il Parlamento repubblicano ne ha fatto serenamente a meno. La segretezza del voto era più teorica che pratica. Per scegliere una persona – si trattasse del Presidente della Repubblica o di qualche altra carica – si deve scrivere il nome su una scheda. Fino a quel giorno del 1992 funzionava così: i commessi distribuivano le schede ai parlamentari i quali assolvevano al loro compito dove volevano, con il livello di segretezza che consideravano più conveniente; potevano nascondersi agli occhi altrui o esibire la scelta ai vicini Poi piegavano la scheda e, quando venivano chiamati, la deponevano nell’urna.

Suscitò scalpore un episodio che si verificò durante l’elezione del 1962. Dopo ben otto scrutini, il sassarese Antonio Segni, candidato ufficiale della Dc, non era ancora riuscito a rimontare completamente il centinaio di voti che, alla partenza, gli mancavano per raggiungere il traguardo. Alla nona tornata fu notato, accanto alle urne, un giovane deputato che non si mosse fino a quando l’ultima scheda non fu lasciata cadere. Un telecronista gli chiese perché era stato lì, dall’inizio alla fine; “Per controllare le schede dei deputati democristiani” rispose. Era Francesco Cossiga, parlamentare di Sassari alla prima legislatura. Al nono scrutinio, con un progresso di 35 voti, Segni fu finalmente eletto. Ventitré anni dopo, la scalata al Colle riuscì al giovane deputato; al primo assalto.

Le polemiche sulla effettiva segretezza del voto ci sono sempre state. Nel 1992 avevano trovato in Marco Pannella un interprete che usava tutta la rumorosa tenacia di cui lo sappiamo capace. Per di più, sembra che nello scrutinio del sabato sera, fossero state trovate nelle urne quattro o cinque schede in più rispetto al numero dei votanti. A quel punto, Scalfaro, neopresidente della Camera, ordinò di provvedere. Con un vero e proprio tour de force falegnami e tappezzieri, nella nottata, allestirono la soluzione.

Per fortuna! L’Italia era con i nervi a fior di pelle: aveva preso il via Tangentopoli, il successivo sabato 23 a Capaci ammazzavano Falcone con moglie e scorta. Al sedicesimo scrutinio fu eletto Scalfaro. Fosse restata aperta la possibilità di contestare la segretezza del voto, non so cosa sarebbe potuto accadere.

Come avrete capito, queste cose le ho vissute; ero lì. Quel catafalco un po’ funereo, messo su in fretta e furia in una nottata, per il generoso casino di Pannella e per la decisione del galantuomo Scalfaro, ha avuto effetti forse più incisivi di una riforma costituzionale.

La parola, adesso, ai grandi elettori. Con l’augurio che in quel separè, che oggi rende davvero possibile il voto segreto, prevalgano i loro pensieri più alti e i loro sentimenti migliori. Come in un confessionale.

 

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CLAUDIO PETRUCCIOLI

Nella vita ho fatto molte cose, ho avuto esperienze diverse, ho conosciuto tantissime persone; alla mia età (sono nato nel 1941) possono dirlo più o meno tutti. Mi piacciono molto le esplorazioni di luoghi poco frequentati perché i più preferiscono evitarli Ci sono stati momenti in cui sono stato “famoso”. Ad esempio nel 1971 quando a L’Aquila ci furono moti per il capoluogo durante i quali furono devastate le sedi dei partiti, compresa quella del Pci, di cui io ero segretario regionale. Ma, soprattutto, nel 1982 per il cosiddetto “caso Cirillo”, quando l’Unità pubblicò notizie sulle trattative fra Dc, camorra e servizi segreti per la liberazione dell’esponente campano dello scudo crociato sequestrato dalle BR. Io ero il direttore de l’Unità e mi dimisi perché usammo un documento “falso”; che, però, diceva cose che si sono dimostrate, poi, in gran parte vere. Sono stato in Parlamento e nella Segreteria del Pci al momento in cui cadde il Muro di Berlino, e anche Presidente della Rai. Con queste funzioni sono stato “noto” ma non “famoso”. La fama te la danno i media. Io, durante il caso Cirillo, ho avuto l’onore di una apertura su tutta la prima pagina de La Repubblica: “Petruccioli si è dimesso”. Quanti altri possono esibire un trattamento del genere? PS = Una parte di queste avventure le ho raccontate in “Rendiconto” (Il Saggiatore) e “L’Aquila 1971” (Rubbettino)

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