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Cinema

Recensione delle recensioni di Carol

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Ho letto scicchicchissime e snobbbibbissime recensioni su Carol, il film. «Il plastico perfetto di un amore noioso», «non è un vero melodramma: è più un’elegantissima gita fuori porta» dichiara il bravo Matteo Bordone su Internazionale. «Patisce una specie d’anemia», «bagna il petardo del tema tabù; e anche la passione che rappresenta, malgrado una certa sensualità circolante per le immagini (non in quelle della scena d’amore saffico, però), risulta raffreddata, più “detta” che mostrata» sussurra Nepoti per Repubblica. E sul web ho incrociato, oltre a spettatrici e spettatori entusiasti, anche autoeletti recensori che proclamavamo un totale distacco dall’opera di Todd Hayes, sceneggiata da Phyllis Nagy. Ma che fini!

E non sono d’accordo, anche se con i film ho gran puzza sotto il naso. Se non sono capolavori mi addormento. L’estetizzazione estrema, l’estetismo, esistono eccome, ma sono funzionali alla storia, mai fini a se stessi. Negli anni ’50 le signore adultere eleganti erano come Carol anche in Italia ─ magari pure etero, ma si sono perse i figli per la follia d’amore. L’eleganza era un valore intrinseco, parte carnale della vita. Condizione all’esistenza nella realtà. Cate Blanchett mi ricorda le drammatiche e mitiche amiche di mia mamma, la bellissima Giovanna C. oppure la mamma di Luca e Giorgio, una fuggita con un uomo e l’altra con una donna, cui furono portati via i figli e molto altro. Mi ricorda anche Adriana, cui mio padre e Mario M. distrussero la vita. Donne altere, geniali, divine, che si muovevano con la statuaria lentezza di Carol, indossavano ampie gonne e cappotti che fluttuavano a ogni passo. Unghie rosso Revlon stringevano le prime borsette di Gucci. E si persero. Carol fu assai più fortunata, ma viveva negli USA.

Carol è un film che parla ─ lentamente ma fino in fondo ─ di classi sociali, d’amore. Della nascita di mille libertà. Di fotografia e della sua capacità di avere impatto nel mondo. Rooney Mara dà vita a una ragazza, di origine modesta, che si permette di sognare su se stessa in grande, di passare da commessa a fotografa, di viversi come artista in una società che comincia a cambiare. Negli USA, si intende.

Mi dite che non c’è anima, cari snobboni da web? Ma no, di anima ce n’è un treno, un TIR, una valanga ─ gelata dalle convenzioni upper class ─ e da quelle sui ruoli possibili alle donne, che silenziosa esplode. C’è la passione di vivere. Ci sono spazi e speranze, paure e tanto coraggio.

Forse vi è dispiaciuto che sia un film fuori dagli schemi dei soliti film lesbici, senza retoriche buoniste sulle donne e cattiviste sugli uomini, senza compiacimenti, e che per di più finisce bene. Un film dove l’amore è l’amore, come ogni tipo di amore.

A me è piaciuto, e ho pianto come la vecchia signora sensibile che sono.

 

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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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