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Racconti Società

ROBA DA CHIODI

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illustrazione di Aglaja

Congiungere pavimenti a pareti, cornici a quadri, appendere, sospendere, irrobustire. Oggi, oltre che di ferro, ci trovate d’acciaio, bronzo, ottone e, i tecnologici, di titanio, magnesio o cromo vanadio. Siamo i chiodi; innumerevoli specie con l’obiettivo principale di unire. Ma Gino il ferramenta, mettendo a posto i cassetti delle minuterie dove ci conserva ordinati per dimensioni, trova da una parte i chiodi di ferro e dall’altra tutti noialtri mischiati in un brulicante casino da non capirci un tubo. Succede che in fabbrica, per energia statica, un chiodo venga elettrificato per sbaglio e attragga gli altri, pensa, ma un tale bailamme non si è mai visto. Gino prende una lente per osservare meglio dei chiodi di ferro che si attraggono e respingono. Ce n’è uno al centro di tutto ‘sto movimento. Storto, largo e un po’ spuntato, già con qualche segno di ruggine. Certamente un errore di fabbrica. Pare impartisca ordini agli altri perché, appena un chiodo non di ferro si avvicina, lo ricacciano nel mucchio di quelli diversi da loro che ormai è talmente grande da far traboccare i cassetti. Non si fermano un attimo e si accaniscono in particolare contro quelli bruniti o a più punte. Addirittura, con un’azione di forza, riescono a farli cadere sul pavimento. Prima a Gino i chiodi di ferro facevano quasi tenerezza. Economici, avevano esaurito il loro corso. Presto sarebbero stati sostituiti dagli altri più performanti. Ma adesso scaccia il pietismo, non si pone più domande e agisce. Raccoglie i “caduti” e li mette, insieme a tutti i non di ferro, su un altro bancone. Poi prende un’asse di legno e un martello. I chiodi di ferro, capendo di averla fatta grossa, si fermano di botto. Quello che pare il capo cerca di nascondersi sotto gli altri ma Gino lo individua subito e lo prende con due dita. E’ caldissimo. Gino cerca di mantenersi calmo e, come un mantra tibetano, ripete in continuazione che è tutto un incubo. Si dedica solamente a quel pezzetto di ferro impazzito. Lo piazza sull’asse e vibra una bella martellata. Il chiodo si appiattisce su se stesso senza penetrare nel legno. E’ cavo all’interno. Vuoto! Lo prende e lo rimette tra i chiodi di ferro perché tutti vedano di cosa è fatto il loro leader: un sottile strato di ferro arrugginito a nascondere il nulla. Poi getta quella piccola patacca maligna nell’indifferenziato pensando che non merita di giacere tra i metalli e la plastica. Viene da noi e ci rimette insieme ai chiodi di ferro riordinandoci per dimensioni, come sempre. Continua a ripetere che è solo un maledetto, diabolico incubo. Rabbrividisce. E bestemmia terrorizzato.

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GIORGIO LAIKA VANNI

Ho iniziato a scrivere a 15 anni le cronache dei concerti del Grande Rock che passava per Roma. Né critiche né recensioni ma la trasmissione delle emozioni sull'onda della musica, specie il progressive. Ci presi gusto e tra lunghe pause, crisi, sopravvivenza e altro pubblicai il mio primo romanzo nel '98, "Oltre la nostra frontiera" da cui trassi uno spettacolo teatrale che ha girato un po' tra Roma, Napoli e l'Italia centrale. Poi venne "L'uomo che ritorna" e il copione teatrale "Damnatio memoriae" centrato sulla storia di Celestino V. Ammiro gli autori visionari come Orwell e Huxley, non mi so vendere, mi sento spesso un pesce fuori dall'acqua ma studio "cinismo" e "sarcasmo" da anni, purtroppo con scarsissimi risultati. Collaboro con LRì da agosto 2017 che ringrazio per la visibilità che mi concede e cerco di ripagarla con le mie "visioni", criticabili quanto si vuole ma quasi sempre fuori dal coro e non scontate.

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