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TREDICI SECONDI

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Nel quadro della collaborazione tra La rivista Intelligente e la Scuola di scrittura Valeria Viganò dopo la pubblicazione del racconto di Elena Baratti “La lunga vita delle zanzarepubblichiamo oggi quello di Claudia Bruno – La Redazione

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Se tornassi indietro mi vestirei di bianco per confondermi con gli scaffali del latte, mi lascerei cancellare dalle luci dei frigoriferi. Gilda fingerei di non vederla, difficilmente le parlerei, ma mi veniva incontro con una tale determinazione. «Come stai?», mi chiese inclinando la voce in un lamento. Non la incontravo da quando avevo lasciato il coro, e adesso se ne stava aggrappata al carrello in attesa di una risposta con l’espressione fissa e ostinata di una civetta. Così mi sfilai gli occhiali scuri, decisi che si meritava la verità.
«Saverio è a casa», le dissi sfiorandole la punta del cappotto.
Gilda ebbe un leggero sussulto, iniziò a indietreggiare.
«È tornato», le confermai annuendo.
Le si sgualcì lo sguardo, fece questo gesto che faceva sempre, di girarsi due dita intorno all’orecchio, di riflesso – come se fosse bastata una virgola a mettere in ordine il discorso, o a sistemare i suoi capelli seccati dai decoloranti.
«Gli spinaci» accennò, «li lascio sempre ultimi per evitare che si sciolga il ghiaccio».
La vidi affrettarsi verso il banco surgelati trascinandosi dietro il carrello, ripresentarsi poco dopo col suo passo floscio. Ci salutammo alle casse, accennando un sorriso prima di imboccare due file diverse – lei col carrello pieno, io con in braccio solo l’acqua distillata. Da lontano la guardavo riempire i sacchetti di mater-bi alla fine del nastro scorrevole, riporre le confezioni rispettando pesi e misure. Di tanto in tanto alzava il mento verso di me, mi riservava occhiate prudenti. Per un attimo mi vergognai di quello che le avevo confidato. Gilda aveva la capacità di non dire nulla di sé, le bastava formulare le domande corrette, lasciar parlare gli altri. Anche al coro faceva così, tra una prova e l’altra poteva posarmi la mano sul polso all’improvviso, domandarmi della malattia di Saverio. E, nel sentirsi raccontare di come la mia vita si sfaldava, brano dopo brano, quasi si nutriva degli strati che perdevo e che non stavano più insieme. Ci ero ricascata, pensai accartocciando lo scontrino. Le augurai che i sacchetti si rompessero prima di raggiungere il parcheggio.

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Saverio arrivava la mattina presto, mi svegliava il suo modo gentile di girare le chiavi e richiudersi dietro la porta d’ingresso. Dalle fessure delle persiane, socchiuse a quell’ora, la luce entrava discreta, sfiorava la cassettiera di noce, scivolava sottile fino ai piccoli rombi marroni delle mattonelle. «Perché non ti cambi, perché non ti metti comodo», lo invitavo mentre lui avanzava nella penombra verso di me, verso la gatta che già cercava l’angolo più adatto a cui dedicare le fusa. Invece lui s’infilava piano tra le lenzuola di flanella con tutta la giacca, mi toccava la testa. «Le ferite sono soglie» mi diceva, e io mi guardavo intorno in cerca di un pezzo di carta e di una penna, come si fa per segnare una strada che altrimenti non ritroveresti.

La frase tornò mentre spargevo sulle siepi i fondi del caffè. Trovai la penna ma squillò il telefono; era Gilda, voleva sapere come cucinavo gli spinaci. Per qualche istante restai zitta, non si era mai interessata tanto da chiamarmi a casa. Le dissi che dall’acqua li tiravo fuori presto, che dopo non facevo che condirli con olio e sale. «E tu?» mi interrogò. Era curiosa delle mie giornate.
Pensai a Saverio, a come speravo che si trattenesse ogni mattina un attimo in più. E invece accadeva sempre lo stesso: lui spariva all’improvviso, e io non riuscivo più a muovermi. Restavo avvinta da un’enorme massa nera che mi schiacciava il petto rubandomi la voce. Finché non suonava la sveglia.
«Abbiamo deciso di chiedere un prestito in banca», risposi.
«Avete?» Gilda cambiò tono, strinse i denti, la immaginai tirarsi via la pelle secca dalle unghie come l’avevo vista fare quando il discorso diventava interessante.
«Adesso ti devo lasciare» troncai, non avevo più voglia di darle in pasto la mia tristezza.
Raggiunsi il tavolo inclinato nello studio, sfilai dal grosso mucchio uno dei fogli bianchi grandi che Saverio usava per disegnare i suoi progetti. Ci scrissi sopra soglie, poi ferite. Per giorni lasciai il foglio al buio, in quella che adesso era la stanza dei panni. Ogni tanto entravo e accendevo la luce, due parole in confronto all’ampiezza del bianco mi sembravano minuscole.

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Saverio arrivava all’alba, restava seduto sul letto a ripassare con le dita le curve del ferro battuto a cui tante volte mi ero aggrappata per fare l’amore. Voleva parlare. Se solo pensavo a quanto avevo dovuto implorarlo in passato, e adesso sembrava non pretendere altro. «Va bene, parla Saverio. Parla» biascicavo nel dormiveglia cercando di avvolgermi nelle coperte che restavano impigliate sotto il suo peso. Non trovavo neanche la forza di rimproverarlo per la sregolatezza dei nostri incontri, di fargli notare che le sue frasi erano diventate difficili, i suoi discorsi faticosi. Mischiava i debiti con le carezze, le rate con i filtri del tè, ma io gli perdonavo tutto. È così che succede quando si crede di aver perso qualcuno, e finché Saverio sarebbe tornato non l’avrei perso completamente.

La casa era un labirinto di spigoli, con le punte degl’indici li tenevo alle giuste distanze. Così i giorni si davano il cambio, tutti uguali, scanditi dalla voce registrata di Saverio. «Nello studio, sul tavolo inclinato» diceva nell’audio che mi aveva inviato, «ho segnato in alto a destra le misure della molla avvolgibile. Leggimele, per favore». Tredici secondi, poi di nuovo «Nello studio, sul tavolo inclinato». E così da capo. Le misure sul tavolo non c’erano più, ma l’avvolgibile dello studio si era inceppata di nuovo e io continuavo a promettermi che l’avrei aggiustata «domani».

Gilda chiamò ancora. Mi chiese se avevo bisogno di soldi, le assicurai di no. Mi informò che nel coro si era diffusa l’idea di una colletta, che entro Natale mi avrebbero tirata fuori da quello che, ne era certa, si sarebbe rivelato essere nient’altro che «un periodo». La ringraziai, ma precisai che non mi serviva niente. «Perché non torni a cantare?» insistette prima di chiudere, secondo lei mi avrebbe fatto bene. Iniziò a piovere, dalla porta a vetri della cucina l’acqua precipitava sugli avvitamenti del rincospermo, lungo i rami spinosi della buganvillea, andava a picchiettare il fango tra i cespugli di lantane. La gatta rientrò e si lasciò cadere dalla bocca un piccolo uccello. Lo raccolsi sul palmo di una mano, con l’altra lo sfiorai, era morbido, alto come un pollice. «Cattiva», le dissi. Lo guardammo scomparire nella terra umida nella sinfonia triste del gocciare sulle foglie. Cosa resta dopo di noi, quanto dura, pensavo.

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Dal coro mi ero allontanata che Saverio era già magro, i dottori gli davano due mesi, a volte sette, non di più. Adesso ero davvero troppo presa per imbarcarmi in controcanti e partiture. A intermittenza mi concedevo un madrigale sottovoce. Dormire invece non serviva più, la notte è un mondo a parte se aspetti qualcuno e io preferivo stirare. Passavo le ore a sparare il vapore sui bordi, a spruzzare i polsini, mi germogliava dentro una dedizione fino a prima sconosciuta. Non ero più nulla di fronte alla quantità di vestiti che Saverio aveva accumulato negli anni. L’unica cosa di cui mi importava davvero era sistemarli bene in vista in modo che al suo rientro li avrebbe ritrovati.
La gatta mi seguiva intralciandomi il passo fin dietro all’ultimo gradino della scala, nei tragitti che percorrevo senza tregua tra l’asse da stiro e l’ingresso, l’armadio a muro e il divano. L’impresa di quegli andirivieni mi stremava, cedevo a un sonno che era sempre troppo poco. Nel contempo, quasi per un meccanismo di compensazione, i discorsi di Saverio erano lievitati. Alcune mattine mescolando il latte riuscivo a ricordare. Nella vasca da bagno le parole affioravano piano come alghe leggere, le osservavo staccarsi da me lentamente, raggiungere il pelo dell’acqua .
Continuavo a prendere appunti, scrivevo: groviglio, cipresso, intelaiare. Su un altro foglio: disfarsi, cucitura, giuramento. E poi sempre più spesso: importo e rateizzare, intermediario e tasso fisso.
Al telefono non rispondevo più, a un certo punto staccai il filo, smisi di ricaricare il cellulare. Non cantavo, nemmeno sottovoce. Per arrivare al senso compiuto ci voleva un silenzio assoluto.

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Quando suonarono al citofono, la gatta gonfiò il pelo e trotterellò verso la porta, si tirò dritta e ci restò, finché non aprii. Gilda entrò seguita da un ragazzo più basso di lei, con la faccia ricoperta da una barba imperfetta. Aveva una cartellina gialla sotto il braccio e tutta l’aria di chi è venuto a darti una lezione. «È mio nipote, è appena stato assunto. Sa tutto del mercato libero della luce e del gas, se tiri fuori le ultime bollette potrà dirti come fare per…» Gilda si interruppe, si tappò la bocca. Per un attimo la vidi barcollare verso il ripiano di cristallo dov’erano poggiate le chiavi. Le chiesi se aveva bisogno di sedersi, di bere dell’acqua. Ma lei non rispose, chiuse le palpebre e lasciò scorrere le dita lungo le sopracciglia, dal centro della fronte fino alle tempie. Poi iniziò a gridare. «È morto!» gridava, «morto! E tu lo devi capire!»

Per molto tempo continuai a svegliarmi all’alba, avevo imparato a tendere il collo e trattenere il respiro per anticipare il minimo spostamento d’aria. Ma sopra i timpani sentivo battere solo il martello del cuore. Saverio non tornò, non lo rividi più. Mi affanno a rintracciare le linee del suo volto, il peso specifico della mano che mi poggiava sui capelli, se mi concentro – mi dico stringendo le palpebre – riuscirò a farmi toccare ancora, sarò capace di sentire il timbro della sua voce riprodursi oltre i tredici secondi rimasti nella memoria del cellulare. E invece non riesco a togliermi dalla testa il ragazzo con la cartellina gialla. Il modo in cui guardava me e tutti i pantaloni di Saverio stirati e appesi agli angoli del soggiorno, le pile di pullover sul divano. E poi la gatta lasciare piccole impronte umide sui grossi fogli sparsi dappertutto sopra il pavimento.

Claudia Bruno è nata a Foggia nel 1984 e vive tra Roma e Londra. È autrice di storie brevi che sono state pubblicate su riviste letterarie e di Fuori non c’è nessuno, romanzo di racconti pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Effequ.

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