Jacovo è un ragazzino vivace e curioso, vive sull’Isola d’Ischia dove suo padre, Donato, pesca “purpetielli” nel lago, il “pantaniello” che solo secoli dopo sarà trasformato in porto.
Siamo nei primi decenni del Seicento. Lo strapotere e la tracotanza di poche famiglie nobili costringono all’immobilismo la società isolana, complice il clero che è diretta espressione delle classi alte, per cui anche la carriera ecclesiastica sembra preclusa a chi vorrebbe dedicarsi alla cura delle anime. Fa eccezione Don Crescenzo che, di fronte alle domande impertinenti del piccolo Jacovo – domande che a ripeterle ad alta voce si rischierebbe di essere processati per eresia – intuisce la pronta intelligenza del ragazzo e, non senza difficoltà, decide di educarlo e di avviarlo al sacerdozio.
Jacovo diventerà così Giacomo, giovane gesuita nel collegio napoletano, poi insegnante di latino e greco, accademico erudito e precettore del rampollo di una nobile famiglia, i Barrile, duchi di Caivano, dove l’incontro con la giovane Costanza alimenterà un sentimento difficile da decifrare, sospeso tra l’affetto e la passione. Infine la scelta definitiva: imbarcarsi per le missioni delle Indie Occidentali, nelle terre a confine con il Paraguay.
Esordio letterario di Franco Di Meglio, segnalato al Premio Calvino, il romanzo ha un titolo suggestivo e accattivante: “È pazzo chi contrasta co’ le stelle”, tratto dal Pentamerone di Basile, in particolare dal “cunto” più celebre, La gatta Cenerentola. La grande tradizione letteraria napoletana – non solo Basile, anche Cortese e Capasso – è uno dei modelli linguistici che ispirano l’opera. Uno dei tanti, perché il romanzo accoglie e traspone con straordinaria abilità i più disparati gerghi vernacolari, come l’ischitano seicentesco parlato da Jacovo e dalla sua famiglia (struggenti i dialoghi di Jacovo con suo padre Donato), il napoletano parlato a Piazza Mercato dai popolani in rivolta durante i moti di Masaniello, la lingua completamente reinventata di un personaggio emblematico come Nikola, detto ‘O Schiavone, le cui rocambolesche vicissitudini di dalmata catturato dai pirati musulmani, convertitosi all’Islam per essere poi fatto prigioniero su galere cristiane, costituiscono per il giovane Giacomo una prima finestra spalancata sul mondo.
Un mondo che si presenta come una realtà complessa che, per quanto percorsa da conflitti e divisioni, non è priva di movimenti osmotici per cui è estremamente facile passare da una parte all’altra, e viceversa. Questo vale per il Mediterraneo, diviso tra la croce e la mezzaluna, e ancora di più per l’educazione che Giacomo riceve nel Collegio dei Gesuiti: un’apertura mentale e una conoscenza approfondita delle tesi di Calvino e di Lutero, da contemperare con la pratica del Nicodemismo e della dissimulazione.
La struttura del romanzo si sostiene su due linee narrative principali e parallele: la parabola del giovane Jacovo che diventa Padre Giacomo, il gesuita, e le lettere che questi, ormai in missione in America latina, scrive a Costanza, lettere che probabilmente non spedirà mai.
Una struttura forte e coerente che permette all’autore di includere più modelli letterari, passando senza soluzione di continuità dall’uno all’altro, per cui il romanzo storico diventa romanzo di formazione, così come il corpus delle epistole diventa diario, taccuino di viaggio, confessione ed esotico atlante delle meraviglie.
La ricostruzione storica è accurata e documentata, afferendo a numerose fonti letterarie e a un ricco repertorio di immagini – soprattutto incisioni e testimonianze cartografiche -; e tuttavia sono evitati i pericoli dell’erudizione compiaciuta, fine a sé stessa.
Allo stesso modo, il passaggio da un registro linguistico all’altro non è gioco virtuosistico, ma la ragione più profonda dell’opera: la parola è espressione del pensiero e plasma l’identità personale. Nelle prime pagine del romanzo, quando Don Crescenzo educa il ragazzo, lo introduce all’istruzione invitandolo a non tradurre “l’iscaiuolo” in italiano, bensì a pensare in italiano, e il Giacomo adulto ricorderà un detto di suo padre ripetendolo come se appartenesse a una lingua del passato, il segno di un definitivo e rimpianto sradicamento. Così come nelle ultime pagine la decisione di partire per un altrove, alla ricerca di una nuova identità, finalmente libera, sarà motivata dalla constatazione che le parole sono ormai diventate “vuote”, prive di significato (siamo a metà Seicento, ma lo smarrimento dell’autore a cui associarsi è quello di oggi).
E dunque un romanzo storico, sì, avvincente e profondo, ma soprattutto un opera in cui si ribadisce la missione salvifica della letteratura, come strumento di conoscenza per interpretare l’ingarbuglio che è il presente.

La copertina del libro di Franco Di Meglio
Anni difficili Ischia Linguaggio
