Un tic

Abbiamo sperimentato (con “Blizzard la bufera”, racconto di Patrizia Tenda) la formula di pubblicare insieme un testo e un commento; perché ci sembrava che la loro interazione potesse ampliare l’interesse e il gradimento e stimolare la riflessione di chi legge. Le reazioni che abbiamo avuto ci incoraggiano a proseguire nel tentativo; ovviamente sempre con il consenso delle autrici (o degli autori). La Redazione

Abbiamo tutti
quell’abitudine strana
che non diciamo,
per vergogna
o per indifferenza.
Un tic, un tremore interno
o un singhiozzo nella notte.
Quelle unghie mangiate
fino a far sangue
parlano per noi
della nostra anima ammaccata.
Mi siedo a volte sulle mura
su al monte
e guardo le colline azzurre,
il vento che danza sull’erba
in un mare ondeggiante di verde.
Là è il posto del mio cuore
quando le parole si spengono
e i tremori si placano.

Per la poesia leopardiana di Rita – Commento di Franca Quatrini

Una poesia divisa in due parti, come faceva il Nostro. L’osservazione della realtà, di noi stessi, del dolore, nella prima, il ricongiungimento con l’anima, con l’universo, con la Natura, col senso delle cose, nella seconda.
La nevrosi dipinta qui in brevi accenni, si fa carne e sangue. Singhiozzi silenziosi e notturni, che interrompono il sonno. Tic, abrasioni, morsi, ferite su ferite. Silenzi che si fanno parole nelle unghie rosicchiate dall’interno bisogno. Una fame inespressa, un vuoto che non trova pace. Un impulso a calmare l’ansietà di una vita, i discorsi non fatti, le parole non dette, non urlate. Le pietre rimaste tra le mani, tra i denti il morso schiacciato, stridente.
Ma ci sono i paesaggi “mirati” per tornare a Leopardi, dalle mura alte, oltre la siepe. C’è il ricongiungimento con le parti serene dell’io, attraverso l’ondeggiare del venticello sui prati, come in Lui il vento tra le fronde riporta alla realtà e al naufragare dolce del pensiero.

5 commenti su “Un tic”

  1. Roberto Ventura

    “L”autofagia”.
    Il tic nasconde qualcosa di ancora più inconscio, inconsapevole e inafferrabile, per questo è molte volte potentissimo e incontrollabile: non frutto di dolore, si ferisce se stessi, per punizione, perché incapaci di esprimere il bisogno urlante di gioia, bisogno cassato, soffocato nel buio più recondito, di se stessi. Questa vile colpa l’inconscio non ci perdona, e inconsapevolmente la natura stessa del nostro corpo ce lo ricorda divorando se stesso, autofagia esattamente. Allo stesso modo noi, per viltà divoriamo noi stessi. Trovare sollievo guardando gli orizzonti di là da noi, è solo una pausa che l’anima concede a se stessa, tra un massacro e l’altro di se stessa. Il tic ha ragione, non noi che non vogliamo ascoltarlo, facendo finta di non sapere, di non capire, per non fare, e fare altro con le nostre false ragioni, persi nei nostri lamenti e dolori che noi stessi ci flagelliamo, nella nostra solitarie autofagia.

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