La canzone napoletana è un universo complesso, attraversato da forti contraddizioni, passioni e malinconie. Mi soffermerò su alcuni brani che hanno come tema la fine di un amore. La figura femminile in questi, come in altri brani, è descritta in modo contraddittorio, a volte idealizzata, a volte demonizzata come malafemmena, colpevole di abbandoni, inganni e tradimenti, fonte di dolore. L’uomo per lei soffre, piange, si dispera, impreca, ma non fa mai ricorso alla violenza. Affida la sua pena alla malinconia, alla parola, al pianto, al canto.
In Core ‘ngrato, l’uomo confessa il proprio strazio:“Io stó’ a murí pe’ chella llá / Stó’ a suffrí, nun se pò credere / stó’ a suffrí tutte li strazie”. È un dolore che consuma, che lacera, ma che non si trasforma in violenza o vendetta. Al contrario, la voce del confessore, figura di saggezza, interviene con una raccomandazione semplice e disarmante: “Figliu mio, làssala stá, làssala stá!”
Allo stesso modo, in Scapricciatiello, è la madre che cerca di salvare il figlio dall’abisso dell’ossessione: “Scapricciatiello mio, vatténne â casa / si nun vuó’ jí ‘ngalèra, ‘int’a stu mese / Làssala, siente a me, ca nun è cosa!” Non c’è incitamento all’odio, ma un monito: l’amore che ferisce va lasciato andare, non vendicato.
In Guaglione, ancora la figura materna riporta il giovane alla realtà: “Che t’hê miso ‘ncapa? / Va’ a ghiucá ‘o pallone / Che vònno dí sti llacreme? / Vatté’, nun mme fá ridere!”
In Era de maggio l’uomo dice: “Fa’ de me chello che vuó’”.
Nel capolavoro di Totò, Malafemmena (clicca qui) , c’è la sintesi della complessa alchimia di amore e odio: l’uomo accusa la donna, la offende (si tu peggio ‘e na vipera), si strugge, ma non smette di amarla.“’Te voglio ancora bene/Ma tu nun saie pecchè/pecchè l’unico ammore/si stata tu pe me”. L’amore sovrasta il rancore, l’inganno.
Queste canzoni ci raccontano una rappresentazione del maschio abbandonato dalla donna amata come dolente, sconfitto, che si rassegna alla separazione. È come se fosse radicato in lui un codice non scritto, un’etica del dolore che impone di contenere l’ira, di sublimarla nel canto, di lasciar parlare il cuore, senza armare la mano.
È un messaggio di straordinaria modernità, soprattutto oggi, in un tempo in cui la cronaca è spesso segnata da femminicidi e vendette travestite da “passione”. Queste canzoni, forse qualcuno potrà dire d’altri tempi, ci raccontano di uomini che, tra mille difetti, soffrono fino a logorarsi, ma non dicono: “sei di mia proprietà, non puoi lasciarmi”. Nelle loro lacrime si nasconde una forma di civiltà.

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