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Racconti

Villa della Quiete Soporosa

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«Dottoressa Crocetta, io mi licenzio, basta!»
«Palmina, calmati. Lo so che è dura. Sono degli scatenati, ormai è guerra, ma non ci puoi lasciare così di punto in bianco!»
La direttrice si torceva le mani, esasperata. La crisi delle vocazioni aveva decimato la manodopera gratuita, e Palmina era il cuore pulsante della struttura. Cuoca, cameriera ai tavoli, confidente e madre vicaria: nessuno, più di un anziano, ha bisogno della mamma. Lei stessa aveva sovente fatto ricorso ai suoi dolciumi e alla sua saggezza, traendone consolazione e serenità. Palmina, novantasette chili di soffice roccia, era indiscutibile.
«Lei sa bene di chi è la colpa, direttrice. Se l’onorevole non ci avesse costrette ad accettare quella squinternata di Arabella, non sarebbe successo questo putiferio. Un’ex attrice di rivista dei tempi di Delia Scala! Ma dove si è visto mai? Sbolognarci la zietta spiantata e chiacchierata, lavandosene le mani. Ora dovremo scrivere a Chi l’ha visto?, l’Arabella per vedere il nipote e noi per vedere la retta. Ma gliela do io la pecorella smarrita, a quel baciapile! Ora ci si è disperso il gregge intero!» «Palmina! Non dire una parola di più. Sai chi ci garantisce i finanziamenti…»
Ma la cuoca aveva ragione da vendere. Prima di Arabella, Villa della Quiete Soporosa era una casa di riposo da manuale, scandita da tempi certi e divisa rigidamente fra bocciofila e maratone di uncinetto. Dopo Arabella, il generale aveva ripreso a impomatarsi i baffi con risultati francamente antigienici, Antelmo aveva cominciato a trascurare la sua Zelinda, alle soglie del sessantesimo anniversario di matrimonio, per non parlare dei fratelli De Nicolinis, una vita intera in simbiosi, che si erano scazzottati di santa ragione per una cravatta Regimental fetente di naftalina. Ma la cosa più grave erano le pilloline azzurre, comparse come funghi un po’ in tutti i cassetti del pensionato maschile, cardiopatici compresi. Con occhiuto senso del marketing, alcuni inservienti ne avevano avviato il commercio, con quotazioni vicine a quelle del platino-iridio. Ma le signore trascurate, tutte, si erano trasformate in incroci mitologici fra l’Erinni e la vaiassa napoletana. Perfino Aldina, la pensionante catatonica, aveva alzato un sopracciglio e biascicato uno “Sciacquetta!” di riprovazione alla vista di una camicetta scollata di Arabella. A cena era tutto un rifiutar minestrine e chiedere nutrimenti virili da un lato, o a scarso contenuto calorico dall’altro, il che aveva provocato l’ira di Palmina.
La dottoressa Crocetta si diresse in sala da pranzo, decisa a riprendere il controllo della situazione. Arabella, fingendo inconsapevolezza, occupava il tavolo centrale, servita e riverita da uno stuolo di vecchietti disposti a tutto pur di vedersi premiare con un’occhiata cerulea lampeggiante fra le rughe della dama. Lo sguardo della dottoressa uncinò quello di Arabella. La vecchia attrice, dismessa velocemente l’alterigia, ebbe un breve fremito agli angoli della bocca e si fece implorante. Una lunga storia di camerini freddi, piazze minori e abbandono affiorò da un laghetto di lacrime azzurre.
Tutto intorno alla scena, le anziane esibivano abitini eleganti, quasi fosse capodanno. Erano furibonde, pronte alla rissa, le guance porpora da centosettanta di pressione e i rossetti risucchiati per capillarità nelle rughe intorno alla bocca. Ma la dottoressa Crocetta non aveva mai visto tanta vita nei loro occhi.
«A pensarci bene, neppure nei miei», si disse, occhieggiando il proprio ovale malfermo e lo chignon grigio topo nella specchiera Liberty. Le dispiaceva ferire Palmina, ma l’incolpevole farfalla sarebbe rimasta a seminar tempesta e agitare le coronarie dei pensionanti. Perché Arabella era un’inattesa estate di San Martino. Un esorcismo scagliato contro la morte.

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