Scalfari e Macaluso non digeriscono Renzi.

 

Venerdì 2 ottobre è uscita a firma Eugenio Scalfari una strana intervista; strana perché il fondatore di Repubblica precisa che domande e risposte sono frutto di un colloquio con Prodi, ma la pubblicazione avviene “a sua insaputa”; il “sua” si riferisce all’intervistato, non all’intervistatore.

La chiacchierata (il mio conformismo mi impedisce di definirla “intervista”) è stata come “consultare un atlante storico e geografico del mondo intero”: Siria, Medio Oriente, Cina, Russia, Obama, Putin, Merkel, Draghi, Europa. Tuttavia le ultime tre domande della intervista erano su Renzi, accusato nell’occasione di non volere l’Europa federale, di farsi bello con le penne del pavone (Draghi) e simili.

La direzione del giornale – immagino – ha ritenuto necessario sentire il chiamato in causa. A una domanda di Claudio Tito su Napolitano e Ingrao. Renzi risponde ”Il PD italiano accoglie le migliori tradizioni del riformismo nostrano. Se poi domanda a me, è naturale che io senta molto più forte il messaggio e la leadership di Giorgio Napolitano rispetto a quella di Pietro Ingrao”.

Queste parole non sono piaciute a Emanuele Macaluso, il quale ha postillato su fb “Osservo che i due, però, mostravano che una dialettica era possibile e che, alla fine, si esprimeva un messaggio unitario del partito: un esempio di un rapporto tra dirigenti di un partito oggi sconosciuto”. Emanuele è notoriamente molto amico e politicamente vicino a Napolitano; dalla sua osservazione si induce però che apprezza innanzi tutto il modello nel quale era possibile una dialettica che – alla fine – esprimeva un “messaggio unitario”. Per chiarire le implicazioni della osservazione si dovrebbe ricordare che quel partito era regolato da norme di vita interna definite “centralismo democratico”, che quel partito non si è mai proposto di governare secondo lo schema della alternativa e dell’alternanza ma solo in alleanza con “tutte le forze democratiche”, che quel partito non poteva essere diretto né da Napolitano (o Amendola) né da Ingrao perché troppo eccentrici per comporre un “messaggio unitario”. Secondo Macaluso perfino Berlinguer con la cosiddetta “seconda svolta di Salerno” all’inizio degli anni ’80, non riuscì più a garantire il carattere “unitario” del messaggio del partito.

Il partito che Macaluso rimpiange come modello ha dunque un gruppo dirigente ristretto e disciplinato, una dialettica politica riservata entro quel gruppo e risolta sempre dal Capo cui competeva la definizione del “messaggio unitario”. Nella intervista di oggi su “La Stampa Macaluso lo conferma.

Ho finalmente capito da dove nasce l’ostilità à tout hazimut nei confronti di Renzi. Il ragazzo non ha il crisma che ha consentito a Napolitano e Ingrao di far parte di “una dialettica che, alla fine, si esprimeva in un messaggio unitario del partito”. A Macaluso non sfuggono le diversità – anche grandi – fra Napolitano e Ingrao; ma quel che gli interessa soprattutto è il crisma che li ha tenuti insieme per decenni e che Renzi, obiettivamente, non ha. Quel crisma si chiama Pci (con tutti i corollari suddetti): Pci, non “socialismo democratico” come Macaluso oggi ripete ad ogni pie’ sospinto. Il Pci ha avuto un grande peso, un grande ruolo nella sinistra italiana del secolo scorso; ma per l’oggi e per il domani non costituisce un modello, da nessun punto di vista, a cominciare dal “centralismo democratico”. Gli ultimi portatori (lasciamo stare se adeguati o meno) di quel crisma sono stati D’Alema, Bersani e Cuperlo. Forse il futuro non sarà neppure di Renzi; certamente non sarà loro.

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