“Conosco questo maledetto, il suo nome è Ali Sonboly, era in classe mia, lo prendevamo sempre in giro e lui diceva sempre che ci avrebbe ucciso”. Questo il messaggio anonimo apparso in una chat dopo la sparatoria di Monaco.
Io sarei potuto essere Ali Sonboly.
Sarei potuto, non sono. Io sono David e sono solo me stesso. Ogni storia è irripetibile, le trame sono infinite, ma composte di un numero finito di fili. La recente sparatoria di Monaco non è atto di un estremista religioso, di un nazista o di un omofobo. È stato l’atto finale della storia di un ragazzino, appena maggiorenne, che aveva il caos nella testa e l’inferno nel petto. Un ragazzo che ha interrotto la vita di altri ragazzi alle cui famiglie va il mio cordoglio.
Il mio pensiero però non può che andare a questo ragazzo e a cosa può averlo mosso. Se l’occasione fa l’uomo ladro, la società fa il folle violento.
La società di un ragazzo è l’ambiente in cui vive e quindi, soprattutto, la scuola.
Mia madre sono sicuro che ancora ricorda l’odio e la sete di vendetta nei confronti del mondo che avevo da ragazzo. I diversi modi con cui avrei voluto sterminare l’umanità. Tra i miei preferiti, un’estinzione atomica di massa e le armi biologiche, ore passate a fantasticare morte e torture. Io sono stato vittima del bullismo, ma alla fine non ho ucciso nessuno, la maggioranza delle vittime pensa, desidera, medita, ma non agisce. Oggi sono impegnato nel combattere il bullismo e nell’aiutare proprio quei ragazzi che non comprendono gli altri e che non vengono da essi compresi. Quei ragazzi che sono diversi, che abbandonano la scuola, che si arroccano nella loro stanza. Quei ragazzi che entrano in guerra ogni volta che entrano a scuola e che passano le serate a parlarmi dell’odio che provano verso il mondo.
Viktor Frankl, psichiatra ebreo che ha vissuto i lager, insegna che possiamo “scoprire il significato della vita in tre diversi modi: 1. col compiere un proposito; 2. con lo sperimentare un valore; 3. con il soffrire”. Ma solo dando un senso alla sofferenza possiamo compiere propositi di valore, quelle che in un linguaggio più moderno chiamiamo “azioni impegnate”.
Mi capita spesso di pensare perché io sia quello che sono, perché se finisco su un giornale è per una conferenza sull’educazione e non per un omicidio di massa. Sicuramente sono nato intelligente, curioso e con voglia di vivere e fare. Ma così anche tanti ragazzi che hanno seguito strade sbagliate. Potrei essere emotivamente più stabile, avere più autocontrollo, ma in realtà quello l’ho esercitato.
La verità è che ogni volta che stavo per prendere una strada sbagliata c’è stato qualcuno che mi ha teso una mano. Sia stata mia madre, una insegnante sensibile, un amico (uno dei pochi che avevo) o la donna, che poi mi ha fatto innamorare e ho sposato. Qualcuno c’era. Una persona, non mille. Una persona, una sola mano, può fare tutta la differenza del mondo. Se una parola può ferire più di mille frustate, una frase può cambiare il destino. La vita può essere trainata dal futuro tanto quanto può essere spinta dal passato.
Non nego che un omicidio di massa sia l’atto di un folle, di un pazzo, di uno squilibrato. Nego che questa sia una giustificazione.
Io sarei potuto essere Ali, mia figlia e tanti ragazzi che conosco potrebbero diventarlo. La sola cosa che il bullismo non può portare via è la scelta di come rispondere a quello che si è subito. Aver sopportato delle bruciature può distruggere o portare al desiderio di distruggere gli altri.
Ciò che i nostri ragazzi necessitano davvero non è uno stato di addormentamento o di perfetta serenità, ma piuttosto il lottare e sforzarsi per qualche obiettivo degno di loro. Ciò di cui hanno bisogno non è alleviare l’ansia a tutti i costi, ma la chiamata di un significato che attende di essere soddisfatto da loro. Per sentire questa chiamata però, per decidere che il mondo che li fa soffrire può essere cambiato e merita di essere salvato piuttosto che distrutto, devono avere speranza.
Per avere speranza hanno solo bisogno che gli porgiate una mano.