Nell’agosto del 2007, a decenni di distanza dal crollo di Wall Street, una grave crisi strutturale di sistema ha investito i mercati finanziari americani e, a catena si è poi diffusa sulle piazze borsistiche di mezzo mondo, rilevando, per la prima volta, la fragilità del capitalismo moderno.
Una crisi di proporzioni devastanti, tale da condurre le più prestigiose banche di affari statunitensi quasi sull’orlo del collasso. Le indagini svolte dalla Sec (Securities and Exchange Commission), in collaborazione con la Fed e la Dea (Federal Reserve e Drug Enforcement Administration), hanno evidenziato che nel default del sistema economico statunitense hanno sì concorso tre cause principali quali: la liberalizzazione dei capitali, la trasformazione degli asset bancari – seguita all’innovazione dei prodotti finanziari e alla globalizzazione degli scambi commerciali – e le politiche monetarie perseguite nell’ultimo trentennio dagli Stati Uniti, ma soprattutto hanno dimostrato che la crisi finanziaria è stata il frutto di palesi inadempimenti delle regole di “corporate governance” e societarie e di gravi violazioni delle norme sul segreto bancario e delle leggi antiriciclaggio.
Le conclusioni raggiunte dalle autorità di controllo americane hanno svelato il ruolo avuto dal sistema bancario “ufficiale” nel riciclaggio di denaro “sporco” proveniente dal traffico di stupefacenti e da attività illecite di organizzazioni criminali. Non è una novità, si dirà. In effetti, i collegamenti tra la criminalità organizzata e le istituzioni finanziarie risalgono alla fine degli anni settanta quando la mafia è diventata una realtà a livello globale; poi, la crisi finanziaria in Russia e le crisi economiche del 2003 e del 2008 sono solo intervenute, si potrebbe dire, a cementare legami già forti. Stavolta, semmai, la novità sta nella facilità con la quale il sistema bancario ha arginato gli organi di controllo e le leggi federali. E’ accaduto, infatti, che alcuni istituti di credito, alle prese con lo tsunami finanziario e la concorrenza internazionale, si sono trovati a corto di liquidità e per evitare il collasso si sono rivolti ai cartelli criminali, gli unici ad avere contante a disposizione.
L’ultimo episodio – dopo le sanzioni inflitte dalle autorità di vigilanza statunitensi nei confronti di Bank of America e di JP Morgan – è quello della Wachovia Bank sui cui conti correnti sarebbero transitati, fra il 1 maggio 2004 e il 31 maggio 2007, oltre 378,3 miliardi di dollari, più di quanto spende uno stato americano per l’erogazione di servizi pubblici. La Wachovia Bank – che nel 2008, proprio per evitarne il fallimento, è stata acquisita dalla Wells Fargo con un finanziamento pubblico di 25 milioni di dollari – è stata condannata dalle autorità americane, ed è oggi a tutti gli effetti una “banca pulita”. Ma c’è un particolare sorprendente: la sanzione pecuniaria inflitta alla Wachovia Bank è irrisoria rispetto alla gravità del reato commesso a dimostrazione che l’attività bancaria e delle banche è più importante della trasparenza. Insomma, la segretezza bancaria viene prima dell’interesse pubblico come dimostrano le misure inadeguate adottate; misure che, di certo, non incentivano il sistema e le istituzioni finanziare a vigilare, in modo serio, sulle attività di riciclaggio.