Amour di Michael Haneke

 

Ho visto Amour, il film di Michael Haneke vincitore al Festival di Cannes. Anzi, Amour ha visto me. Amour è un film che interroga e guarda il pubblico. Non metaforicamente; concretamente. Fin dalle prime scene, quando gli spettatori di un concerto, seduti nella platea del teatro e inquadrati frontalmente, ci osservano come se fossimo noi lo spettacolo cui stanno per assistere. Amour è un film essenziale, rigoroso, che non indulge a patetismi. I primi piani sono pochi. Tutto è narrato in campo medio o lungo, con rispetto, pudore, forse anche freddezza. La vicenda è semplice: due vecchi coniugi – Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, che escono dalla prova come due assoluti mostri  – conducono una vita tranquilla fino al giorno in cui lei si ammala di una sindrome degenerativa che condurrà entrambi ad una fine analoga. Ma Amour non è un film sulla vecchiaia o sulle malattie della vecchiaia, ed è incidentale che i protagonisti siano ultraottantenni. Amour è un film sull’amore, sulla vita e sull’amore per la vita. Anche nei suoi aspetti più crudeli. Amour non spiega cos’è la vita: ci mostra com’è. E mostrandola ci interroga, ci osserva, cerca di capire se siamo in grado di portarne il peso.
Sotto questo aspetto è un film crudele, da entomologo. Una crudeltà accentuata dalle scelte di regia: inquadrature frontali, camera fissa, luce naturale, assenza di scene in esterno. Un film a tratti insopportabile, perché anche la vita lo è. Un film sprezzante verso ogni pietismo, che con la pietas, o quella che il vangelo chiama carità, non ha nulla a che vedere. Un film cristologico, se non fosse che, in questo caso, Cristo sono un uomo e una donna.

 

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