Questo mio mare, d’inverno, si tinge di nero e inghiotte.
Trizza rimane in silenzio, sotto lo sguardo solido dei faraglioni.
Di notte partono i pescatori per il largo. I più piccoli trainano la lenza con la barca a motore; è pieno di aguglie argentate che nuotano sul filo dell’acqua. Gaetano partirà con i grandi. Guarda verso la madre che è in piedi sul molo. «Copriti ca fa friddu» urla lei nel vento, sfregandosi le braccia con le mani. Sullo scoglio, tra i ricami di guano, vigila la Madonna Ausiliatrice. La lampara attira nella rete le sarde e le ricciole.
«Sugnu trizzotu, e sugnu marinaru» sussurra Gaetano tra sé, mentre la barca prende il largo. Intanto a riva si pescano le cipolle con il secchio e la fiocina legata a un’asta lunga.
Sulla scalinata, in via Centrale, c’è un piccolo nespolo nella casa che fu dei Malavoglia. È domenica e si va a messa. La chiesa di S. Giovanni Battista la costruirono i trizzoti stessi, dopo il terremoto, con le pietre raccolte tra le macerie.
La mamma di Gaetano accarezza un muro lungo la strada, è quel che resta del Bastioncello che sorveglia il mare di fronte ad Acitrezza. È tardi e non vede la barca avvicinarsi al porto. «Figghiu mio unni si?», e stringe nella tasca il fazzoletto di cotone rosso, «San Giovanni u sai ca ti sugnu devota sempre».
Sotto terra scorre Aci, il pastorello che divenne fiume. Scende bellissimo dall’Etna sopra un letto di alghe rosse che ricordano il suo sangue e la gelosa furia di Polifemo. La sua colpa fu di amare la stessa ninfa di cui si invaghì il gigante. Tante furono le lacrime che pianse Galatea per la morte di Aci, che gli dèi fecero del suo corpo un corso d’acqua dove lei potesse immergersi in eterno.
«Chista fu l’Isola ri Capre sicunnu Omero. U leggisti mai Omero?» chiede Salvatore e sputa la buccia di un lupino. Gaetano sente la pelle tirargli in viso, tanto è il sale che ha raccolto stando a prua. Tra poco si vedrà il porto. Lui Omero non lo ha letto, per lui quella è l’Isola Lachea. Il fondale è bianco e viene voglia di tuffarsi e nuotare sino alla Pitrudda, lungo il canaletto, poi aggirare la Longa e raggiungere, in apnea, il faraglione piccolo. Tra poco vedrà sua madre agitare le braccia in punta di piedi sui basalti, come se fosse rimasta lì, in attesa, per una settimana intera.
«Sciatu miu, n’hai a partiri chiui, picchì sì picciriddu, e io sto troppo in pena» si lamenterà soffocandoselo al petto.
«Ma mamma, io sugnu marinaru» risponderà lui gonfiandosi d’orgoglio come fa un uomo. Intorno all’Isola lo Ionio diviene cristallino, anche se è inverno e il mare è così nero.