Giuseppe, carpentiere

Ho ancora sonno. Tanto sonno, se proprio devo dirla tutta. Tra apnee notturne e caldo feroce ho dormito da schifo. E la molle penombra della camera mi tenta, dietro la tenda gonfiata di scirocco, ma devo cominciare alla svelta, prima che si svegli Gesù. E’ accanto a me, infilato a metà giaciglio come un ciuffo d’erbetta selvatica. Placido e sudaticcio, in uno dei suoi rari momenti di quiete. Maria è già andata a prendere l’acqua al pozzo, mentre qualche contadino bavoso le starà sbirciando le caviglie sotto la tunica. Ecco. Gesù si gira su un fianco e viene a sbattermi col ginocchio. Questo è il momento critico che si ripete ogni mattina: il difficile sta tutto nell’alzarsi alla chetichella senza che il bimbo se ne accorga. Più facile a dirsi che a farsi, lo so. Perché hanno un sesto senso, questi mocciosi, più potente di una malìa. Percepiscono l’assenza del tuo odore, tarano la differenza di peso sullo stuoino, avvertono il rumore della solitudine. Tuttavia, ho imparato un trucchetto per sopravvivere, ché iniziare la mattinata di lavoro con Gesù già sveglio è un’evenienza da scansare quanto possibile. Insomma: alzo la sua gambetta dal mio fianco e la riabbasso su una palla di stoffa, così che lui ne senta il contatto al mio posto. Un sussulto. Scuote la boccuccia. Mi paralizzo, con un piede sul pavimento e l’altra gamba ancora sul letto. I suoi occhietti fanno un paio di giri sotto le palpebre, ma nient’altro. Dio sia lodato, anche stamattina è andata. Resta solo di uscire dalla stanza a passo leggero.
Un paio di fichi e una mela, che delizia, soprattutto con una temperatura del genere. Afa distillata. Sono molto preoccupato dalle ultime estati, sempre più torride. Il Giordano rischia la secca, date le scorte d’acqua al limite. Tamburello con l’unghia sul tavolaccio, mentre il primo cliente cerca ombra sotto l’uscio della bottega e lo accolgo con un ampio gesto a entrare, Pa-pa, mi spiega il lavoro: un ponteggio semplice fissato su cavalletti di quattro cùbiti, Papà. Dannazione, si è svegliato Gesù, Aspetta un attimo, sta già per frignare, ora parte con la fontana. Il cliente non vuole dare anticipi, intanto, dice che paga tutto a lavoro finito, il furbetto, Paaapaaa. Ma chi me lo fa fare? Arrivo figliolo, mando via il cliente assicurandolo che ho capito cosa fare e sarebbe potuto tornare nel pomeriggio per un campione di prova. Mi fiondo dal bimbo, che nel frattempo piangeva sconsolato. Poverino. Si è accoccolato tra le mie braccia come un cucciolino, il suo tepore mi accarezza la pelle. Profuma di buono. Spero Maria torni presto, mentre Gesù si tasta il nasino col dito. Ci preme su come se volesse trovarci un bottone segreto. Fissa un punto sul soffitto. Sembra concentrato, chissà. Indugia curioso. Lo ammiro incantato, una carezza sulla soffice guancia. Poi gli faccio un velo di solletico nell’ombelico e lui ride a gola piena, mentre la luce nei suoi occhi splende di marrone, il colore di Maria. Ma la forma infossata è simile a me.
La prima parte della mattina procede come un sentiero a zig-zag tra le dune, tra cose che riesco a gestire e altre che sono costretto a procrastinare. Martello sulle travi senza troppi problemi, pur col sottofondo di distrazione del bimbo e le sue incredibili attività. Consultandomi con un cliente sulla forma di una sezione quadrangolare, tengo d’occhio Gesù che mordicchia una carruba. Di tanto in tanto viene a tirarmi un braccio per mostrarmi un nuovo miracolo, come quando plasma una statuetta di argilla e le dà vita. Che ci vuoi fare, mi sono rassegnato. Dopotutto, non è un bambino come altri e io, tecnicamente, neanche ne sono padre. Continuo a piallare una staffa sbilenca, spiegando al pargolo che bisogna puntare il peso in maniera decisa, spingendo senza strattoni bruschi. Lui mi guarda stralunato, accarezzando la pecora d’argilla sul piccolo palmo. Mi inginocchio di fronte a Gesù e gli assicuro con un abbraccio che anche la sua infanzia sarà bellissima, nonostante tutto. Lui mi schiocca un bacio, col visetto tutto serio, come se avesse capito. In un attimo dimentico che siamo a Nazaret per un soffio, dopo esserci nascosti dalle spade di Erode.
Mi rimetto a lavoro con difficoltà, che il bimbo si è rifugiato sotto al tavolo dopo aver sbriciolato del pane, spargendone i resti sul tappeto proprio come farebbe infuriare sua madre, se solo potesse vederlo. E invece ci guarda dalla stalla Tabata, la dirimpettaia tutta sguardo languido, che spazza come ogni mattina alla stessa ora. Impugna la saggina con lo sguardo verso me e ne oscilla il bastone, lenta, quasi volesse dilatare il tempo. Ci osserviamo a vicenda, nessuno accenna un gesto fuori dallo schema: lei spazza e raccoglie la polvere; io sego e rifinisco i trucioli. Poi la giovane donna scompare dietro le tende svolte, come la stella di un sogno fugace.
Imposto una tabella di marcia per il resto della giornata, se non fosse che concentrarsi rimanga quantomeno arduo. I rumori di Gesù che corre per la bottega, un caldo da crepare, tanta sete e Maria ancora non tornava, la stretta scadenza del lavoro di ponteggio, una laida voglia di peccato, il timore agghiacciante della siccità, le troppe lacrime volgendosi indietro, la semplicità del genio, le grida del mercato dalla via adiacente, il galoppo di un cammello nero, i terrazzamenti sghembi di ulivi sui fianchi delle colline, lo sdegno in un rifiuto impedito, i sandali puzzolenti nel fango, la serenità nel distacco, una menzogna travestita da responsabilità, lo stanco sorriso prima di crollare addormentati. Penso a quanto sarebbe facile preparare queste impalcature senza mio figlio che spinge forte e corre, fa la spola lungo gli stretti spazi della nostra casa e rischia di sbattere la fronte almeno tre volte. Va detto che quando fa così, Gesù, è perché ha fame. Scaltro come un brigante al saccheggio, richiama la tua attenzione senza possibilità di fuga. Anzi, la prende in ostaggio e la imbavaglia finché non paghi il riscatto. Un pezzo di formaggio, delle noci, un dattero. Mi arrendo e ripiego nella dispensa. In strada una zuffa tra cani. Gocciolo di sudore, la casa è un forno. Gesù cerca di arrampicarsi sul mobile con risultati deludenti, proprio non ce la fa, ma evito di agevolarlo. Mi serve impegnato mentre gli cerco qualcosa da mangiare. Mi gira un po’ la testa, tra l’altro. Ho dormito davvero male. Tiro fuori un involto di acini d’uva, preparato ieri sera da quella santa donna di Maria, Pappa! Il cucciolo affamato intuisce che ci siamo quasi e viene a tirarmi la veste. Mi guarda dal basso, questa vivace testolina con la frangetta storta. Si placa soltanto al primo morso, quando vede la madre tornare e le corre incontro, braccia aperte e piedi scalzi tra i sassi, dimenticando la fame e tutto il resto, condensando il mondo in un abbraccio.

 

 

 

 

 

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