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Racconti

AMANITA FALLOIDE

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Estate a Cortina

Cortina, agosto 1970
Stretti nel retro delle due jeep, i bimbi parevano mazzi di fiori colorati. No, Edda no: lei, sulla camicetta smerlata, non portava che un maglioncino grigio. Ma gli altri! Trecce bionde sfociavano in fiocchi fucsia, capoccette a spazzola issavano cappellini verdi decorati da penne di gallo cedrone. Le parioline sfoggiavano dirndl di cotone rosa e celeste. Massima cafonata, il costume ampezzano senza esserci nate! Mentre i maschietti romani erano stati dotati di gilet in lana cotta e knickerbocker di pelle. Invece milanesini e milanesine mantenevano un loro piccolo aplomb, in maglioncini di cashmere blu carta da zucchero o rosso cupo. Le due contessine veneziane sembravano statuine nei peggiori colori pastello.
Il colorato carico si trasformò in una nidiata frastornante. I cinguettii si levarono al cielo di porcellana. Si parte, si parte! Andiamo a Dobbiaco a vedere i crucchi. Faremo gli scherzi ai crucchi e alle mucche. Le tate issavano panieri di Gucci. Le altre madri e padri sistemarono i loro eleganti vizi e arroganti virtù sui sedili imbottiti. Ginevra si allacciò il pullover, e salì a bordo, dietro la sua Edda.
Le jeep viaggiavano tra due scure ali di montagne, nella valle stretta che porta da Cortina a Dobbiaco, cambiando di colpo paesaggio, luce e regione. Ginevra vide passare veloce il bivio per Ra Stua, rifugio di passeggiate eroiche, immaginò ruscello, fiori, zuppe, la valletta dorata, i cavallini aviglinesi e le mucche sul prato. Fiames. L’aeroporto abbandonato, dove Mario era caduto col suo Piper, bruciando tra le fiamme. Il funerale. Un intero paese in lacrime. Carbonin. Sulla sinistra della strada doveva esserci il greto del Boite, dove bambina si era recata con la classe.
“Mamma, sei ancora triste?” Edda la scrutava.
“Ma no, stavo pensando, cose… Sai che da piccola, quando frequentavo la III, sono venuta qui a piantare alberi? Era il rimboschimento”.
“E com’è stato?”
Scolari in fila, pianticelle in mano, macchie di sole nel sottobosco. L’acqua bassa incolore sulle pietre bianche. Profumo di abeti. E la sua sensazione di avere un ruolo di grande importanza nella società, un sentirsi, per una volta, bambina sana e utile. Sorrise alla figlia: “bellissimo, leggero, giorno fortunato. Non sentivo dolore al petto, ero già guarita, credo… ora i nostri pinetti saranno alti alti nel bosco”.
Edda immaginò la madre in grembiulino, piccola, seria, magra.
“Un giorno mi ci porti? E magari cerchiamo il tuo…”
“Sì, certo, ma ho paura che ormai sarà difficile distinguerlo fra gli altri”
Presto, il cartello: “DOBBIACO – TOBLACH”
Risate. Ja whol. Strudel. Frei und besetz. Cartoffel… i ragazzini urlavano nel loro minitedesco. L’invasione del Sud Tirolo stava per cominciare.
“Le mucche!” fu l’urlo. Sì, c’erano, mucche sparse pacifiche per il prato di velluto, alcune bianche e nere, altre bianche e marrone. Si lasciavano avvicinare, accarezzare dai bambini – non sapevano di che sorta di frugoletti si trattasse. Edda e la mamma scesero, tenendosi discoste dagli altri.
“Guarda mamma, ci sono anche i funghi!”
Edda indicò col ditino i primi radi abeti e larici, che davano inizio alla foresta che saliva verso il monte. Funghi, dalle grandi cappelle rosse punteggiate di bianco, si raggruppavano ai piedi degli alberi.
“Guarda nel tuo libro, Edda. Non sono buoni da mangiare, dovresti saperlo”.
Si avvicinarono, inginocchiandosi all’ombra. “Amanite muscarie, i funghi dei gnomi e delle fate… dette anche Ovoli malefici. Ma non uccidono, fanno venire il mal di pancia e la diarrea, vero mamma?”
“Leggi più avanti, anche allucinazioni e delirii…”
Pian piano s’era avvicinato a loro il Duchino, il più grande dei ragazzi, quasi un adulto: “sempre sui libri eh, Eddina secchioncina?”
Ginevra si voltò a squadrarlo. Edda si strinse alla mamma. Ma il Duchino perse interesse: “qui qui, amanite muscarie d‘ogni misura” urlò, levando le braccia steccute al cielo, sventolando il nasone, oscillando le ginocchia nei bermuda di velluto cachi “veleno, veleno, venite a vedere il veleno”. Quasi tutti accorsero eccitati – tranne le tre sorellastre. Figlie di Gabriele, una adulta e madre, Ginevra, figlia della morta Missy, le altre due, appena decenni, avute dalla seconda moglie. Edda sentì un abbraccio fugace, sua madre si allontanava.
D’improvviso le urla si levarono intorno ai funghi. Veleno, veleno. Il Duchino sbottò in una genialata. “Diamoli alle mucche, vediamo se le mangiano…”
Le mucche mangiarono subito, e non morirono stecchite sul colpo. La banda di eleganti dementi si consolò – faranno un latte velenoso – che ridere – la val Pusteria intera che si tiene la pancia. E come no? Sorrisero Edda e Ginevra, allontanandosi nel bosco ancora un po’, sfogliando insieme il manuale. Te li vedi i tirolesi che le lasciano pascolare tranquilli in questo prato? Mica sono scemi.
“Le mucche saranno immuni dalla famosa e terribile sindome panterinica, che dici, mamma?”
Rispose allegra Ginevra, scrutando fra le pagine: “e tra omaso e abomaso neutralizzeranno acido ibotenico, muscimolo e anche muscazone! Che quindi non passeranno nel latte”.
Ridacchiarono fra loro, e del gruppo di asini ricchi che stavano aspettandosi delirio e convulsioni nelle pazienti bovine.
Merenda: i panieri vennero aperti, uscirono panini al latte con speck e cetrolini, torte di albicocca e succhi di frutta fatti in casa, dalle cuoche. Ginevra si sedette, guardò da lontano il padre che carezzava la sua Olimpia, bionda e ricciuta, e le loro figlie. Edda vide. Dai mamma, pensò, le ziette non sono cattive. E anche nonno Gabriele, in fondo, ci vuole bene. In fondo. E poi noi siamo molto e molto ma molto più belle di loro; qui a Cortina me lo dicono tutti. Lo pensò, ma tacque.
“mamma, dammi il libro, che vado più su a studiarmi un po’ di micologia”
Edda non tornava. Ginevra spinse lo sguardo nel bosco, tra ombre e chiazze di sole. Dietro a un cespuglio di mirtillo intravide spuntare gli scarponcini. In quattro sgambate la raggiunse e la scoprì inginocchiata accanto a un gruppo di piccoli funghi, il libro aperto al capitolo delle amanite, un dito su una figura. Edda girò la testa. “Mamma, guarda, la morte”.
E le indicò col dito, sotto un larice, un fungo giallastro, snello, con un bel cappellino a ombrello e il gambo bianco. Intorno erano sparsi altri più piccoli, ancora chiusi, graziosi come ovetti di un uccello sconosciuto. “Tignosa verdognola,” disse Edda. “Si chiama anche amanita falloide. Sicuramente mortale”. Madre e figlia si tenevano discoste dai miceti, occhieggiandoli in tralice, e poi confrontandoli con le fotografie del libro. Uno, due, uno due. Sì. Cappello liscio, quasi serico – a guardarlo, ma a toccarlo, chissà – lamelle bianche, alte, gambo con venature.
“Anello cadente a fazzoletto sul gambo!” Sì, anche quello. Edda si abbassò come per annusare, la madre la scostò brusca, si chinò pianissimo, prudentissima, e annusò senza sfiorare: “e ha un vago sentore di miele”.
Si allontanarono, sempre in ginocchio, e continuarono a sbirciare la amanite, in silenzio. Ammirazione, paura, grandezza perfino.
“Ne basterebbe un frammento, una briciola”, poi un sospiro. Di ambedue.
E poi, Ginevra: “mettono soggezione, a pensare quanto sono potenti”.
Angelo della morte. Che bel nome. Anche ovolo bastardo, perché da piccolo sembra proprio una Amanita Cesarea, l’ovolo buono che si mangia in insalata con sedano e grana. Quindi facile da somministrare.
“Mamma, mi sembra di guardare il diavolo. Mi sembra persino che mi guardi, con malignità”. Ma i funghi non guardano nessuno, nemmeno i più velenosi.
Dal basso arrivarono voci, richiami. Sì sentì il rumore del motore delle jeep che si riscaldavano. Una breve corsa, e si ritrovarono nella piccola folla di gitanti che si apprestavano a ripartire. Edda osò: tirò per la manica quello sbrindellone del Duchino e gli sorrise malvagia. “Allora, non ne avete ammazzata neanche una di mucca, vedo!”
Ohibò. Dopo una lunga e nasuta riflessione le venne risposto, con sussiego: “beh, sono ancora tutte in piedi… ma questa sera i dobbiachesi, dobbiacensi, dobbiachini, dobbiacosi, come si chiamano, si disferanno dalla caccarella. Urla belluine si leveranno dalle loro malghe”. E ghignò, la bocca enorme, come lo stregatto astratto.
Edda e la mamma ridevano sotto i baffi.
La lunga, triste luce blu delle montagne si stava chiudendo, stendendosi sopra la valle. Il cielo in alto era ancora azzurro, con le sue macchiette bianche di cirri. Le cime delle vette erano del loro rosa bruciante, tra oro e fucsia, aguzze e lontane in un inarrivabile tramonto. I bambini erano stanchi e tacevano – nascondendo la poca voglia di tornare nelle loro splendide, case. Alcuni adulti si beavano di “name dropping e oral sold spending” come sussurrò buffonesca, nell’orecchio della figlia, Ginevra la contestatrice. E li ascoltarono compunte.
“Ieri ero in Faloria con i Serbelloni e gli Sforza…”
“questo cachemirino? Da Bardelli, un duecentomila, neanche tanto”
“hai skiato con il maestro Micia? E’ sublime!”
Che pirli, pensava la piccola Edda, godono come furetti di altrettante scemenze. Noi ci occupiamo di ben altro.
Si strinsero le mani, si avvicinarono, Edda poggiò la testa sulla spalla di mamma. Guardavano davanti a loro, sul sedile anteriore, le teste del rispettivo nonno e padre Gabriele, della sua seconda moglie vezzosa, delle piccole sorelle/ziette, che sobbalzavano insieme per l’ingresso delle macchine sulla sassosa sterrata.
Noi abbiamo un segreto, pensò Edda. Abbiamo un segreto, pensò Ginevra. Abbiamo guardato la morte da vicino, negli occhi verdastri. Abbiamo visto la sua carne bianca. E nemmeno una briciola ne abbiamo staccato.
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GIOVANNA NUVOLETTI

Sono nata nel 1942, a Milano. In gioventù ho fatto foto per il Mondo e L’Espresso, che allora erano grandi, in bianco e nero, e attenti alla qualità delle immagini che pubblicavano. Facevo reportage, cercavo immagini serie, impegnate. Mi piaceva, ma i miei tre figli erano piccoli e potevo lavorare poco. Imparavo. Più avanti, quando i ragazzi sono stati più grandi, ho fotografato per vivere. Non ero felice di lavorare in pubblicità e beauty, dove producevo immagini commerciali, senza creatività; ma me la sono cavata. Ogni tanto, per me stessa e pochi clienti speciali, scattavo qualche foto che valeva la pena. Alla fine degli anni ’80 ho cambiato mestiere e sono diventata giornalista. Scrivevo di costume, società e divulgazione scientifica, per diversi periodici. Mi divertivo, mi impegnavo e guadagnavo bene. Ho anche fondato con soci un posto dove si faceva cultura, si beveva bene e si mangiava semplice: il circolo Pietrasanta, a Milano. Poi, credo fosse il 1999, mi è venuta una “piccolissima invalidità” di cui non ho voglia di parlare. Sono rimasta chiusa in casa per quattro/cinque anni, leggendo due libri al giorno. Nel 2005, mi sono ributtata nella vita come potevo: ho trovato un genio adorabile che mi ha insegnato a usare internet. Due giovani amici mi hanno costretta a iscrivermi a FB. Ho pubblicato due romanzi con Fazi, "Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più" nel 2007 e "L’era del cinghiale rosso" nel 2008, e un ebook con RCS, "Piccolo Manuale di Misoginia" nel 2014. Nel 2011 ho fondato la Rivista che state leggendo, dove dirigo la parte artistico letteraria e dove, finalmente, unisco scrittura e fotografia, nel modo che piace a me.

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