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Racconti

Bossolo vuoto

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Uno dei tre migliori racconti usciti dal corso di Scrittura narrativa tenuto da Valeria Viganò (marzo 2023) – L’Autrice è Camilla Del Re

A pensarci bene è davvero una bella giornata, con il sole alto nel cielo e le rondini che saettano tra i grattacieli. Tim sorride, ma non ha tempo per il birdwatching perché la stringa della sacca lunga e stretta che pende dalla sua spalla sinistra ha iniziato a premere dolorosamente sul trapezio. Di spostarla dalla parte opposta neppure a parlarne, con il braccio destro ormai riesce a malapena a mangiare, perciò stringe i denti e tira dritto lungo West Houston Street, osservando le vetrine eleganti di Manhattan circondate da uomini e donne altrettanto raffinati.
In altri tempi Tim, con indosso la camicia a scacchi da montanaro, si è sentito fuori luogo a New York ,ma il Tim anteguerra è diverso dal Tim di adesso. La sua versione attuale non si preoccupa più di come gli altri lo vedono, perché ha finalmente capito che non piacerà mai a nessuno. Non è così arrogante da non farsi carico della situazione, è
consapevole di essere lui a non sapersi relazionare. È stato il suo psichiatra il primo a dirglielo (Pillola lo chiamava) usando un mucchio di termini altisonanti per spiegargli come lo stress post traumatico stesse prendendo il sopravvento su di lui.
Tim però non si era preoccupato di capire. Al tempo gli interessava solo il foglietto con cui poteva andare a prendere le pasticche, nella speranza di trovare un equilibrio tra l’insonnia causata dal dolore incessante al braccio e gli incubi che lo tormentavano appena riusciva a chiudere gli occhi. Il tutto inframmezzato da complicate giornate passate a
cercare la forza di occuparsi di una figlia di sei anni e di una moglie non più così sicura di volerlo ancora accanto.
Tim fa una smorfia nel ripensare al viso di Mia arrossato e contratto dalla rabbia nel tentativo di spronarlo a uscire di casa, quando un paio di scarpe dal tacco vertiginoso attirano il suo sguardo e i pensieri si sfilacciano. Tim si ferma di colpo davanti alla vetrina abbagliante, con gli occhi puntati sul piedistallo trasparente che gira per mostrare
le decolleté da ogni angolazione. Per un po’ rima ne imbambolato a guardarle, chiedendosi se assomiglino davvero a quelle nelle foto che sua figlia Meredith continua a pubblicare sui social.
Va al college ora, per laurearsi in qualcosa legato alla moda. Tim è molto orgoglioso di lei, anche se non ha mai avuto modo di dirglielo. Lui ha un profilo falso. Meredith non accetterebbe mai la sua amicizia, neppure virtuale, e lui non se la sente di biasimarla. Mia l’ha portata via di casa a sette anni, e non è certo di cosa le abbia detto su di lui. Suppone però che la parola drogato sia la più gentile che abbia usato.
Di Meredith quindi conosce solo le effimere finestre sui momenti felici che rende pubbliche. A Tim piacerebbe essere
partecipe anche delle difficoltà che deve aver affrontato. È doloroso sapere di aver perso l’occasione di offrirle il braccio ogni volta che è caduta. E, considerati i tacchi che ama, deve essere capitato molte volte.
La stringa della sacca che gli sega la spalla lo richiama alla lunga camminata che ancora lo separa dal West Side di Manhattan. Tim distoglie lo sguardo dalla vetrina, dispiaciuto di non avere milleduecentotrentasei dollari per comprare le scarpe a sua figlia. Ne ha già acquistate tante nei discount, un mucchio colossale abbandonato in cucina tra proiettili e pile di carne in scatola. A volte gli sembrano tutte uguali, altre invece guardarle fa male, abbaglia, lo
distoglie dal nulla che è diventato.
Quando accade, neppure la droga è una via di fuga sicura dal dedalo di possibilità perdute che si affollano nella sua testa, così ogni scarpa diventa Meredith che gli parla, lo abbraccia, o meglio che abbraccia l’altro Tim, quello reale, e di cui lui è solo l’ombra. Un bossolo vuoto restituito dall’Iraq.
Se solo riuscisse a trovare la forza di farlo, Tim getterebbe via ogni scarpa. Invece continua a comprarle, forse nell’illusione di poterle spedire un giorno a Meredith come regalo cumulativo di tutti i compleanni passati. Il suo cervello, però, gli fa presente che dovrebbe anche conoscere l’indirizzo di sua figlia: a nessun corriere può essere chiesto di cercare tutte le Meredith Baker di New York per consegnare un pacco.
Stai zitto stupido, intima Tim a se stesso muovendo il braccio sinistro come per scacciare una mosca, non hai motivo di dare consigli non richiesti solo perché oggi non ti ho drogato. È difficile tenere sotto controllo i pensieri da sobri. Le pillole li attutiscono e impediscono ai ricordi di ferirlo, proprio come hanno fatto i frammenti del suo
stesso omero schizzati da ogni parte dopo l’esplosione della mina.
Era un’operazione di routine, il loro mezzo è semplicemente passato nel punto sbagliato e l’ordigno è esploso prima che Dylan potesse finire il suo aneddoto sconcio. Tim si è risvegliato in ospedale con un dolore lancinante al braccio destro e il sorriso sornione di Dylan stampato negli occhi. Quando i medici gli hanno detto che era l’unico
sopravvissuto della squadra, ha pensato che non avrebbe più avuto occasione di sentire il finale della battuta. Una cosa davvero idiota, che però continua a tormentarlo. Nessuno, neppure Pillola, è mai riuscito a spiegargliene il motivo.
Tim scuote la testa e riprende a camminare a passo svelto, tagliando un grosso incrocio per restare su West Hudson Street. Qualcuno suona rabbiosamente il clacson e Tim vede un taxi superarlo poco dopo. Non si preoccupa di rispondere agli insulti dell’autista e tira dritto fino a quando non scorge il profilo familiare dell’ufficio regionale per i veterani.
Non è grigio, questa cosa l’ha colpito anche la prima volta che ci è entrato, ma di un marrone meno freddo degli altri edifici della City. Nella mente ripercorre i corridoi dalle pareti giallastre fino alla stanza in cui molti anni prima una donnina minuta ha protocollato i documenti che gli hanno garantito una pensione misera, nonostante il braccio malconcio e una mente fuori fuoco. Quegli stessi documenti che ora non vanno più bene, sono difformi, per usare una delle loro parole. Gliel’hanno detto via mail, tre mesi prima. Avrebbe potuto integrarli, ma la droga si è mangiata la sua capacità di controllare tempestivamente la posta. Li ha visti tardi e ora non ci sono più firme da aggiungere o caselle da spuntare. Semplicemente, non ha più nulla.
La sacca sulla spalla all’improvviso è troppo pesante, e Tim se la toglie di dosso per poi appoggiarla con delicatezza in terra. È nera, con una toppa sbiadita dei Giants e una lunga zip che corre lungo tutto il perimetro. Tim la guarda con un vago affetto, cercando di non pensare alla noncuranza con cui un impiegato senza volto deve aver archiviato la sua pratica.
Alle spalle della scrivania c’è sicuramente stata una bandiera americana. Negli uffici dei veterani le
mettono dappertutto, tristi e flosce come chiunque sia costretto a vivere della carità del proprio paese. Prima è stato tutto un grazie ragazzi, poi bentornati eroi, ma nei loro sguardi Tim ha visto passare già allora la domanda terribile: perché non sei morto laggiù? Le lapidi costano meno dell’assistenza sanitaria.
Tim ridacchia tra sé, proprio come i matti, e arranca fino a una panchina davanti all’ingresso del palazzo, accompagnato da tutti i suoi fantasmi. Crolla a sedere e con l’indice destro solletica la zip, che si apre quel tanto che basta per fargli infilare tutta la mano nella sacca. Tim però non lo fa, non vuole essere rassicurato dal contatto
col metallo. Quello che davvero desidera è godersi ancora un altro po’ il calore del sole. La giornata è davvero splendida, è un bene che si sia deciso a farlo proprio oggi. Si chiede solo se il braccio destro
reggerà la fatica, ma non perde tempo a rispondersi. È abbastanza esperto da poter fare un tentativo. Quando finalmente si rimette in piedi la sacca scivola in terra con un tonfo morbido.
Tim quasi non si accorge del calcio con cui manda in pezzi la porta di vetro dell’ufficio dei veterani, né percepisce l’urlo stridulo dell’addetta all’accoglienza. Non sente neppure il peso del fucile, né il dolore alla spalla. È strano però, perché anche la presa sull’arma è meno familiare. Le grida spaventate dell’impiegata si trasformano in singulti sorpresi. Tim abbassa gli occhi: la decolleté rossa tacco dodici che stringe in pugno sorride ammiccante, piena di denti a forma di proiettile. Il tintinnio è argentino come la risata di Dylan, come il sonaglio che Meredith amava a due anni. È un suono sbagliato per delle munizioni, anche mentre le rovescia sul pavimento.
La ragazza dell’accoglienza ora lo sta fissando in silenzio. Tim non la guarda ma ne immagina lo stupore, la vede con le braccia strette attorno al busto. È la scarpa, però, a occupare il suo campo visivo. Vorrebbe gettarla via, è troppo rossa per le sue mani, invece si china lentamente e l’appoggia in terra in mezzo ai proiettili. Un piccolo monumento in un cimitero dimenticato.
Tim sorride con le lacrime agli occhi e arretra verso la porta sfondata. I vetri scricchiolano sotto i suoi passi e le sirene della polizia ululano attraverso Manhattan. Tim sa che lo arresteranno, ma non ha paura: da troppi anni conosce già la sua prigione.

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